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Faenza nella storia - I capitoli

Faenza nella Storia _ Cap. 3.1 La signoria del duca Valentino, il tentativo di restaurazione manfrediana ed il dominio veneto (1501-1510)

Cap 3.1. La signoria del duca Valentino, il tentativo di restaurazione manfrediana ed il dominio veneto (1501-1510)

Appena sottomessa, Faenza inviò i suoi oratori a Roma a chiedere l’esecuzione delle franchigie contenute nell’ultimo capitolo della resa; ma a ristoro dei sofferti danni essi ottennero soltanto 2200 scudi da essere sborsati entro 3 anni; onde poco lieti se ne tornarono con la risposta pontificia, Si ha poi dallo Zuccoli che, con sua lettera del 28 novembre 1501, il duca Valentino ingiunse agli Anziani di Faenza di cedere i castelli di Russi, Solarolo e Granarolo all’estense Alfonso, figlio d’Ercole duca di Ferrara, a disegno forse di accrescere con tal dono la ricca dote della sorella sua Lucrezia Borgia, che andava sposa al predetto Alfonso; onde gli Anziani si accinsero ad obbedire. Ma il Tonduzzi (pag. 564) dice di ignorare se questa cessione (di cui non fanno cenno altri storici) fu veramente fatta, e come avvenisse che i detti castelli ritornarono poi sotto la giurisdizione faentina.

1502

Lucrezia il 26 gennaio 1502 passò da Faenza per recarsi a Ferrara presso il novello marito, e (al dire di un anonimo cronista, cfr. Valgimigli XII, 24) “stette a cena la sera et a desinar la mattina, e le fu fatto grand’honore, e la città vestì cento putti alla divisa del duca Valentino, che le andarono incontro”. E nuove feste si celebrarono, per ordine del novello rettore della provincia di Romagna, Remigio de Lorqua, spagnuolo, il 25 aprile, a solennizzare l’anniversario della caduta di Faenza in potere del Borgia: ed ebber luogo balli pubblici, e tiri di balestra, e un palio di cavalli etc. Parimenti il 18 di maggio si festeggiò con balli, giuochi e caccie il passaggio per Faenza di un nipote del re di Spagna. Ma il rinnovellato governo ecclesiastico pesava, nonostante le allegrezze ufficiali, su le città di Romagna; e già aveva in quel medesimo anno il duca Valentino instituita in Cesena la cosidetta Rota dei Giudici, o tribunale Supremo per tutto il dominio, e v’era andato come primo uditore per Faenza il dott. Andrea dei Nigusanti; quando l’oltracotanza ed eccessiva severità del predetto rettore della Provincia rese cotanto odioso il costui governo che frequentissimo erano le lagnanze e le querele dei sudditi al duca Valentino; onde quest’ultimo, montato in ira, e per dare finalmente una soddisfazione al popolo, fece imprigionare in Cesena l’intollerante suo ministro; e nella notte dai 25 ai 26 decembre lo fece senz’altro squartare sulla pubblica piazza.
Vuole il Marchesi che il Borgia, entrato nella signoria di Faenza, abolisse l’ufficio di potestà, surrogando nell’esercizio di quella carica un vicario; tuttavia è certo, ad ogni modo, che il potestà fu in breve ripristinato; un atto notarile, infatti, del 26 novembre attesta che in tal carica era a quel tempo il forlivese Giovanni Antonio Becci.

1503

Dal rescritto, poi, apposto ad un’istanza di Giacomo Azzurrini, in data 10 marzo 1503 (Tonduzzi, 565) si apprende che nell’alto ufficio di luogotenente del duce era successo in Faenza, al Saraceni predetto (il quale fu eletto giudice della Rota cesenate), Girolamo Bonadglia.
Moriva frattanto il 18 agosto di quest’anno stesso il papa Alessandro VI, e non di veleno preparato per altri, sì bene, come è più probabile, per febbri malariche che lo colsero insieme co’l figlio Cesare; onde, spento il pontefice, malato il suo degno figliuolo, si ridestarono le sopite ambizioni e le speranze dei signorotti da lui spodestati; e così Pandolfo Malatesti ebbe Rimini, i Vitelli tornarono a Città di Castello, lo Sforza rientrò in Pesaro, e Galeazzo Riario tentò riprendere Imola, ma non vi riuscì. E intanto i baroni dello stato romano prendevano le armi per riconquistare i lor feudi contro l’ambizione del Borgia, il quale tentava, sebbene malato, d’impadronirsi del tesoro pontificio e recare in sua mano l’elezione del novello papa. Ma, vistosi ormai impotente e non più sicuro, venne egli a patti con il collegio cardinalizio, mentre il 15 settembre era eletto il novello papa Pio III.
Sull’esempio degli altri signorotti, Francesco Manfredi, unico superstite dei figliuoli naturali di Galeotto, da Bologna (ove dicesi menasse vita assai povera per la confisca dei beni fattagli dal Valentino, ed ove, in quell’anno stesso 1503, trovossi ammalato di mal francese nell’Ospedale della Morte, e perdette per tal malattia un occhio), ottenuti soccorsi dal Bentivoglio, mosse verso Faenza insieme al cugino Carlo (uno dei figli naturali del vescovo Federico), e con 60 cavalli e 150 fanti, verso la fine del settembre o il principio dell’ottobre. Ma in Faenza la paura del Valentino ritenne i cittadini dal tentare insurrezioni, avendo essa, all’annunzio della morte del pontefice, inviato a Roma ambasciatore Pietro Spada a fine di sapere come andavano colà le cose del Borgia; onde i due cugini Manfredi, dopo aver invano fatto il giro delle mura, si ritirarono verso Oriolo.
Caduta la potenza del Borgia, furono essi subito richiamati, e venne tentata una restaurazione della signoria manfrediana con l’elezione di Francesco, al quale si volle imporre il nome di Astorgio IV, in memoria del giovinetto principe cotanto amato dal popolo, che miseramente era stato finito per le mani scellerate del Valentino. Se non che, dispiacque tale elezione agli uomini di Val d’Amone, o per meglio dire a Dionigi e Vincenzo Naldi, che grande autorità e potenza avevano nella valle, i quali chiamarono per ciò Sigismondo Manfredi, figliuolo di quel Taddeo che vedemmo principe d’Imola, facendogli credere di volerlo fare signore, laddove segretamente se la intendevano ormai con i Veneziani. Ciò comprese ben presto lo stesso Sigismondo; e intanto il luogotenente del Duca, e il tesoriere di lui Cesare Viarani si ricoverarono nella rocca, ancor fedele al Valentino, e, fuggiti di poi nella valle, cercavano di venderla; il che è prova di tradimento verso il loro novello padrone, non solo, sì anche dell’odio persistente che i Viarani nutrivano contro i Manfredi.
I Veneziani, che aspiravano ormai al dominio di tutta la Romagna, avevano alla morte di papa Alessandro, raddoppiato il presidio di Ravenna, inviandovi poco di poi, qual provveditore, Cristoforo Moro; ed alle loro armi si arrese ben presto Russi, mentre un Guido de’ Pasolini da Faenza trasmetteva a Ravenno il desiderio di molti della sua città, di volersi ricoverare all’ombra del leone di S.Marco. La Signoria veneta commise allora al suo provveditore di fare accordi per avere la rocca faentina e quelle del contado, ch’erano ancora in mano di castellani del Valentino, molto disposti a cederle per danaro. Così avvenne che Dionigi Naldi, sempre ostile alla signoria dei Manfredi, consegnò ai Veneziani le rocche di Val d’Amone commesse alla guardia e presto cadde in mano loro anche la rocca di Faenza, mercè del castellano spagnuolo Ramiro, che si lascò facilmente corrompere. Cristoforo Moro vi alzò la bandiera di s. Marco, e tra i Veneziani padroni della rocca, e i Faentini della città incominciò aspra battaglia, volendo questi ultimi mostrare al papa che non avevano chiamato le milizie venete. Erano essi stati soccorsi questa volta dai Fiorentini, che avevano mandato a Faenza duecento fanti sotto il conte Pietro Dal Monte; ed ai ripeturi colpi delle artiglierie venete opponevano ripari ed argini, mentre il novello pontefice Giulio II (Giuliano Della Rovere), succeduto a Pio III, faceva pervenire le sue doglianze a Venezia, e questa rispondeva che non solo Faenza non era posseduta dalla Chiesa, ma la Chiesa medesima se n’era spogliata spontaneamente, avendola conferita con altre città al duca Valentino in dominio.
Ma i Faentini non potevano resistere a lungo al novello assedio dei Veneziani, i quali, condotta a termine felicemente la loro impresa di Rimini, aveano mandato tutto il loro esercito contro Faenza, ponendolo a campo al convento dell’Osservanza, fuori di Porta Montanara; onde fu giocoforza arrendersi. Così avvenne che il 19 novembre l’esercito veneto occupò la città, mentre Francesco manfredi, ossia Astorgio IV, se ne andava esule a Venezia (insieme, pare, con il cugino Carlo), ivi pervenendo soltanto nel febbraio 1504 perchè, al dire del Litta, trattenuto fino allora in Ravenna, infermo di mal francese. Accolto onorevolmente dal doge, ebbe Francesco la conferma degli accordi conclusi rispetto a lui ed agli altri Manfredi legittimi o naturali (ossia dell’annua provvigione di 1200 scudi per ciascheduno), e passò tranquillo in quella città gli ultimi suoi anni, morendovi senza prole il 24 decembre 1506, mentre forse tuttora viveva la moglie di lui, Beatrice di Ugo di Carpegna.
I principali patti (fermati da Niccolò Foscarini e Cristoforo Moro per la repubblica veneta, da un lato, e da Iacopo Pasi, Andrea Tomba, Alessandro Severoli, «de numero magnificorum Antianorum Faventiae», da Pietro Paolo Casali, Ludovico Scardovi, Pietro Spada, Andrea Recuperati, Gabriele Calderoni, Emiliano Barbavari, ser Vincenzo Tonduzzi, Tommaso di ser Paolo, «nomine Antianorum», e da sedici consiglieri del Consiglio generale, dall’altro lato) furono i seguenti: Venezia si oobligava a pagare il censo alla s. Sede, per modo che Faenza non incorresse in alcuna censura ecclesiastica; le persone ed i beni dovevano essere salvi e tutelati da ogni ingiuria pubblica e privata; gli statuti, constituzioni, decreti e ordinamenti faentini erano confermati; mantenuti in ufficio gli Anziani e il Consiglio generale; Faenza restava libera di far nuovi statuti e riformagioni, e doveva essere esente per dieci anni da qualunque dazio, gabella e gravezza; passati dieci anni, le gabelle e gravezze doveano pagarsi in quel modo e forma che si pagavano al tempo di Astorgio III, eccetto che nelle divisioni e successioni di beni, e nei contratti dei beni immobili, nei quali casino dovea pagarsi tassa alcuna; gli uffici della città e del distretto doveano essere conservati e dati dal potestà ai cittadini, eccettuato quello di castellano della rocca; i benefici ecclesiastici dovevano essere conferiti a Faentini; i creditori di Astorgio III e IV pagaqti da Venezia; nessuna imposizione di gravezze potesse farsi senza l’approvazione del Consiglio generale; che i cittadini non fossero obbligati a tassa alcuna per il mantenimento di soldati della Signoria veneta, e che i contadini non dovessero essere obbligati a pagare tasse per il mantenimento di più che ottanta corazze, salvo il caso di necessità; che le terre della città, contado e distretto appartenenti al territorio di Russi, dovessero avere le medesime gravezze e privilegi degli uomini di Russi stessa; che le cause civili dovessero trattarsi e decidersi in Faenza; che le sentenze criminali dovessero essere date dal potestà ovvero rettore inviato dalla Signoria veneta, etc. etc. Notevole tra gli altri capitoli quello per cui i beni mobili (panni, robe. Etc.) del fu Astorgio III Manfredi, inviati a Ferrara od a Lugo al tempo della guerra del Valentino, dovevano ritornare in possesso della comunità di Faenza, e da questi essere donati al Monte di Pietà.
Tra cotali oggetti d’Astorgio ve n’erano pur del fratello naturale di lui Giovanni Evangelista; ed allora la madre di quest’ultimo, Cassandra Pavoni, che ancor viveva con il nome di suor Benedetta da Ferrara nel monastero di s. Maglorio, accampò diritti di eredità su ‘l morto figliuol, e ne riebbe (siccome appare da un rogito dell’archivio notarile in data 5 novembre 1504) le robe. Per chi desideri notizie della fine della bella amante di Galeotto, aggiungeremo qui che, dopo avere essa pronunciati i suoi voti il 1º marzo 1507 (fino allora, adunque, era stat monaca, ma non professa), morì nel 1513, e fu sepolta nella chiesa del monastero di s. Maglorio, ove leggesi anche oggidì sulla sua tomba la seguente epigrafe: Benedicta – Christi – Sponsa – Olim – Thome – Ferrariensis – de Pavonibus – sub – hoc – saxo – quescit – MCCCCCXIII.
Primo provveditore veneto, ossia rettore e potestà di Faenza (da che sembra certo che l’ufficio e le attribuzioni di potestà fossero, sotto il dominio veneto, assunti dal provveditore stesso) fu il patrizio veneto Pietro Marcello, davanti al quale il 21 decembre 1503, nel primo Consiglio generale, fu recitata da Francesco Giangrandi un’orazione gratulatoria in nome della città.

1504

All’entrare del 1504, poi Faenza inviò a Venezia ambasciatori (Pietro Paolo Casali, il dott. Pietro Spada, il dott. Andrea Recuperati, il dott. Giobbe Bianchelli, il dott. Battista Sali, il dott. Gabriele Calderoni, Filippo Bazzolini, e Tommaso di ser Paolo) a chiedere al senato la sanzione dei predetti capitoli; e profittando di cotesta occasione, domandarono detti ambasciatori l’aggiunta di altri capitoli favorevoli alla città. Ed il senato benignamente accordò, per esempio, che il prezzo del sale non salisse più di un quattrino la libbra; che Faenza potesse estrarre da Venezia, senza dazio e per una sola volta, legname da fabbriche per il valore di trecento ducati etc. etc. Chiesero inoltre gli oratori faentini che, riformandosi in meglio l’ottavo capitolo della resa, tutti gli ufficiali della città, del contado e del distretto fossero eletti non dal rettore o potestà veneto, ma dal Consiglio generale di Faenza; al che rispose la Signoria di voler assumere prima maggiori informazioni in proposito.
Papa Giulio II, intanto, scarso di denari e d’armi, sebbene avesse in cuore di riorganizzare saldamente il dominio ecclesiastico, per riunire poi, con vasto disegno politico, gli stati italiani sotto l’egemonia del papato, non potè per allora usar minacce contro Venezia, ma soltanto ammonizioni e vane querele; se non che, volle riavere almeno le rocche ancora rimaste al Valentino, prigioniero in Roma, il quale, piegatosi ad accordi per ottener libertà, consegnò alla Chiesa le fortezze di Forlì, Cesena, Forlimpopoli e Bertinoro, ultimo avanzo del suo effimero ducato di Romagna. Forlì alla caduta del Valentino aveva acclamato signore Antonio II Ordelaffi, morto il 6 febbraio 1504, cui successe Ludovico, suo fratello naturale, che dopo due mesi fu costretto a rendere la città al pontefice.
Questi, però, andava preparando contro la Serenissima una fiera tempesta: aderì, adunque, alle segrete convenzioni di Blois, nel settembre di quell’anno, delle quali la terza stabiliva un accordo tra il papa, l’imperatore Massimiliano, il re di Francia e l’arciduca Filippo dei Paesi Bassi, a comune difesa ed offesa dei Veneziani, per ritorre loro quelle terre che essi illegittimamente occupavano.

1505

Venezia allora, anche perchè i Cesenati, Forlivesi ed Imolesi di dolevano presso il papa che parte de’ loro territori fossero tuttavia in potere delle armi venete, s’indusse nel nuovo anno 1505 a promettere di restituire al pontefice Cesenatico, Savignano, Sant’Arcangelo, Meldola, Casola Valsenio, Monte Battaglia, Tossignano e altri tre luoghi minori; ma riconfermò esplicitamente i suoi diritti su Rimini e Faenza. Ed a meglio conservare quest’ultima, forse, il senato veneto credette opportuno l’atterramento, nel 1506, di cinque ormai diroccati castelli della val di Amone (Calamello, Montealbergo. S. Cassiano, Fernazzano e Monte Mauro), per restaurare invece, con il danaro ricavato dalla vendita di ruderi, legname e terreno di dipendenza delle smantellate rocche,le fortezze di Ceparano, Gattara e Rontana. Ed il primo d’aprile di quel medesimo anno il novello provveditore e potestà di Faenza, Marco Giorgio, patrizio veneto, pubblicava un editto, affinchè fossero esaminati e riveduti ai debiti di Galeotto, di Astorgio III Manfredi e del Valentino, a scanso di controversie e querele.
Frattanto il fiero Giulio II, non osando affrontare i Veneziani senza gli aiuti francesi, per incominciare ad ogni modo a ricostituire lo stato ecclesiastico, attendeva a cacciar con le sue armi Gian Paolo Baglioni da Perugia, e Giovanni II Bentivoglio da Bologna, guidando egli stesso l’impresa (settembre-novembre 1506).

1507

Nel ritornare a Roma Giulio II evitò di passar da Faenza e da altri luoghi di dominio veneto, e giunto il 23 febbraio 1507 al ponte di s. Procolo, passato il Lamone con un largo giro per s. Lucia delle Spianate, se ne venne su’l territorio di Forlì. Nel novembre di quell’anno stesso il provveditore veneto dava licenza ai frati della chiesa di s. Francesco di guastare le tombe dei Manfredi sotto l’altare di s. Giovanni Evangelista, onde furono distrutti anche cotesti monumenti dell’antica potenza, ed andaron poi disperse molte delle scritture manfrediane che parimenti si conservavano nella detta chiesa.

1508

Nell’anno 1508, essendo provveditore e potesta di Faenza il veneziano Luigi Cappello, mentre la repubblica di s. Marco, fedele alla promessa di tre anni prima, consegnava al pontefice dieci castelli della Romagna, si conchiudeva il 10 decembre a Cambrai tra l’Impero e la Francia una lega per ispegnere “la insaziabile cupidigia dei Veneziani”, dai quali Luigi XII reclamava ora Cremona e la sinistra dell’Adda, come dipendenze del ducato di Milano, e Massimiliano imperatore le città perdute, nell’ultima guerra, di Gorizia, Trieste, Pordenone e Fiume, oltre che Padova, Vicenza, Verona, Roveredo, Trreviso e il Friuli.

1509

Tutte le potenze che avevano da ritogliere qualche cosa alla Serenissima (Ferdinando il Cattolico, i signori di Mantova e Ferrara, il duca di Savoia, il re d’ Ungheria) aderirono al trattato; ed il papa, che rivoleva ad ogni costo Rimini e Faenza, entrò nella lega il 25 marzo 1509. Il 27 aprile, poi, Giulio II fulminò la scomunica maggiore contro Venezia, se entro ventiquattro giorni essa non restituisse i possedimenti romagnoli alla Chiesa e tutte le entrate ivi percepite. Assoldato poi un esercito di 8000 fanti, 400 uomini d’arme ed altrettanti cavalli leggeri, sotto il comando di Francesco Maria Della Rovere, duca di Urbino, suo nipote, preceduto da Ludovico della Mirandola con una grossa avanguardia, il papa fece invadere senz’altro la Romagna. Alle armi del conte della Mirandola cedono tosto gli abitanti di Solarolo, ed allora il provveditore veneto di Faenza, Marco Orio, accorre con soldati e popolo al Senio, ma dopo una scaramuccia è costretto a ritornare in città. Le milizie della Chiesa muovono intanto dalla bastia del ponte di s. Procolo su Brisighella; e soccorse quest’ultima strenuamente Gian Paolo Manfrone, spedito dal provveditore, il quale penetrò nella rocca e rianimò i cuori dei difensori. Ma a nulla valse il valore; chè le milizie papali riuscirono a prender la fortezza, e, fatto prigioniero il Manfrone, s’abbandonarono ad ogni sorta di crudeltà e di feroci saccheggi. Riferisce il cronista Zuccoli che un tal Francesco d’Oliva da Brescia, capitano delle milizie pontificie, si staccò da queste, mentre movevano su Brisighella, e se ne venne co’ suoi a Faenza, dove il provveditore gli fè buon viso, credendo avesse disertato le bandiere papali; ma scoperto di poi, mentre stava per consegnare ad un messaggero del papa una porta della città, fu preso ed impiccato su le mura insieme con un suo nipote: e i due cadaveri furono poi strascinati a lubidrio per le vie della città, tra gli schiamazzi dei fanciulli.
A questo punto il legato pontificio di Bologna, Francesco Alidosi, stimò opportuno di porre al provveditore veneto una grossa taglia, nella speranza di vincerne l’animo, e riacquistare senza forza di armi la città; ma passati i tre o quattro dì concessi ai Faentini per ridursi in soggezione al papa, questi ordinò alle milizie di muovere all’assedio della città, ed ai ministri ecclesiastici di uscirne nel termine di tre giorni. Si dispose allora il provveditore alla difesa, mentre le genti pontificie, nell’ora stessa in che il Della Rovere entrava in Romagna a capo del grosso dell’esercito, occupato Granarolo, si recavano a campo a Russi, prendendola dopo dieci giorni di lotta. Nel frattempo la gran rotta veneta di Agnadello (14 maggio 1509), sui campi lombardi, ammoniva il senato a piegarsi alla volontà del papa; ma il legato pontificio, che nulla sapeva di cotali proponimenti avviava per conto suo pratiche particolari per la resa pacifica di Faenza, ben ricordando quale resistenza avessero gli abitanti opposta al Valentino, e come essi fossero ormai legati d’affetto a s. Marco per la retta amministrazione de’ Veneziani, per la loro larghezza verso i cittadini, per la loro cura nel comporre discordie e dissidi. Si rivolse per questo il detto legato al canonico Niccolò Rondinini, che sapeva molto stimato, scrivendogli il 16 maggio come ad amico pronto ai suoi segreti disegni; e il canonico dovette obbedire con molto zelo, se è vero che con occulti offici e persuasioni trasse settanta uomini alla deliberazione di dar la città in mano ai ponteficî, raccogliendo per questo misteriosi conciliaboli nell’oratorio sotterraneo del beato Novellone, sotto la sacristia della cattedrale e facendo discorsi di infiammare costoro nel modo che racconta l’Azzurrini nella sua cronica. Così avvenne che, sotto gli auspici del detto Rondinini, furono scelti alcuni dei più attivi, a dare esecuzione al disegno, i quali furono Pietro di Niccolò Damiano di Melchiorre Tonduzzi, Gian Battista di Paolino Gothi de’ Montanari, e Carlo di Giovanni Mengazzi. I congiurati presero il nome di Compagnazzi; ma le cautele per tener nascoste le loro trame non valsero ad impedire che qualche cosa giungesse all’orecchio de’ Veneziani: onde il provveditore con un pretesto inviò il Cenni a Venezia, dove appena giunto fu catturato e tenuto prigione. Dal canto suo il papa, conoscendo i secreti maneggi de’ Compagnazzi, rifiutava di ricevere l’ambasciatore veneto e di intavolar negoziati per la pace, finchè non fosse liberato e rimandato in Faenza il predetto Cenni. Il provveditore veneto, giudicando pericolore le aperte repressioni, ordinò allora al popolo, che s’era levato in armi, di deporre esse armi sotto gravi pene; la cavalleria fatta entrare in città, e le altre milizie venete avrebbero da sole compiuta l’opera della difesa contro l’esercito pontificio che minacciava.
Ciò spinse i Compagnazzi a rompere ogni indugio: onde prima tentarono invano d’aizzare il popolo contro i Veneziani, eccitando un tal Gerolamo da Merlaschio, uomo gagliardo, a dare una spinta ad una guardia di porta del Ponte, affinchè i compagni di essa insorgessero a difesa, e ne venisse una zuffa; e poi mossero i numerosi fanciulli di una scuola presso S. Bartolomeo verso la piazza, al grido di «chiesa, chiesa», unendosi i congiurati nelle grida e nello schiamazzo. Questo secondo espediente riuscì: ai fanciulli ed ai congiurati si aggiunse ben presto il popolo in arme, e scoppiò un gravissimo tumulto, così che, assalite le guardie del pubblico palazzo, furono esse uccise o scacciate insieme con le altre milizie venete, e le insegne papali si sostituirono tosto al superbo leone di s. Marco. Il provveditore veneto trovò prima scampo e poi prigionia nella rocca, la quali di lì a poco si arrese.
Alcuni deputati del popolo faentino, che era stato così pronto ai nuovi consigli, recaronsi a portar le chiavi della città al cardinale legato, che abitava nel convento suburbano dei Minori Osservanti. Il legato si affrettò a riceverle, ma quanto alle vive preghiere di concessioni da farsi alla città, ne accolse alcune ed altre ne rifiutò, secondo l’interesse suo e l’importanza di esse; onde gli ambasciatori si ritirarono disillusi, con poca letizia e minore speranza di futuro bene. Del resto i pontificii non tennero fede ai patti stabiliti con Venezia per la cessione delle città romagnole: persone e cose avrebbero dovute esser saalve; ma del provveditore prigioniero nulla più dice la storia, le munizioni non furono lasciate uscire dalle fortezze, da soldati e paesani furono spogliate le persone che stavano per imbarcarsi a Ravenna su i navigli della repubblica, e al dire del Guicciardini (Storia d’It. III, 247), «500 fanti dei Veneziani, usciti di Faenza sotto fede del legato, furono svaligiati per commissione del duca d’Urbino». I beni immobili dei Manfredi (tredici grossi poderi i nquel di Faenza, Russi e Solarolo, mulini entro la città e nel castello di Solarolo) furono in gran parte dati ai Compagnazzi in premio della degna opera loro; e la comunità di Faenza dovette poi contentarsi di riavere soltando sette poderi ed i mulini della città; né basta, che il cardinal legato appropriò a sé stesso Solarolo ed i suoi mulini, e favorì e protesse i congiurati per modo che essi divennero tanto fastosi ed orgogliosi da non essere ormai più sopportati da alcuno. E invano la comunità inviò un’ambasceria a lagnarsi con il papa; chè il cardinale trattenne gli oratori con aspre minacce a Viterbo, ov’erano giunti, e li obbligò a tornare indietro. Tentarono ancora i reggitori della città di mandare messi al papa, ma il legato per altre due volte negò la sua licenza; chè anzi spedì tosto da Bologna, ove trovavasi, il suo segretario a faenza, con la proibizione agli Anziani di convocare il Consiglio senza la presenza di lui, e con l’obbligo di aggiungere al numero dei consiglieri altre quarantotto persone tutte fedeli al capo dei Compagnazzi, Pietro di Niccolò Cenni, sia per riempire i posti vacanti, sia per sostituire altri consiglieri da lui non graditi, perchè non bene affetti alla Chiesa, e perciò deposti. Finalmente, consultatosi con otto principali cittadini (Pietro Spada, Iacopo Pasi, Andrea Severoli, Pier Nicola Castellani, Francesco Quarantini, Filippo Bazzolini, Giovanni Castellani e Bartolomeo Casella), diè alla città il desiderato permesso di inviare ambasciatori al papa, i quali furono gl’illustri giuristi Iacopo Pasi e Gabriele Calderoni, ed il medico e filosofo Pier Niccola Castellani. Ma quando, benignamente accolti, ebbero esposte le loro lagnanze circa i beni dei Manfredi, il papa, già prevenuto dal legato Alidosi (il quale avea spedito innanzi con sue lettere il famigerato Pietro Cenni), si schernì con buone parole, dicendo che non potea pienamente contentarli senza prima aver parlato col cardinale medesimo. Ma per fare intanto una piccola concessione, inviò il pontefice agli Anziani ed al Comune di Faenza una lettera in forma di breve, in data 6 agosto 1509, con cui ordinava fossero sequestrate le rendite dei beni manfrediani donati ai Compagnazzi.
Intanto prendeva stabile forma in Faenza il novello diretto governo papale, per il quale, oltre al potestà o pretore che amministrava la giustizia, fu instituito un nuovo magistrato, ossia il governatore per la s. Chiesa, che rappresentava nella città, si direbbe oggi, l’autorità politica. Primo dei pretori per la s. Sede fu il giurista cesenate Iacopo Beccari, come si ha da rogito del 7 luglio 1510; e primo governatore fu Roberto de’ Nobili da Montepulciano, come si ha da rogito del 28 luglio. Quanto al capitano di val d’Amone, il cardinal legato, fino dal 3 giugno 1509, avea eletto a tal carica, in ossequio ai capitoli sottoscritti ed ai quali accenniamo qui sotto, il dott. Marco Antonio Barbavari, faentino.

1510

Su l’entrare del 1510 tornarono gli ambasciatori a Roma per avere finalmente la conferma ed approvazione finale dei capitoli stipulati con il legato Alidosi; ma i Compagnazzi avevano già precedentemente brigato ed ottenuto per loro conto la conferma delle donazioni predette, come ricavasi da un breve papale del primo marzo. I principali dei capitoli su detti furono i seguenti: la città, il popolo e il clero erano ricevuti nella grazia del pontefice e assolti da ogni censura; erano accordati privilegi spirituali, raffermati i beni immobili di Astorgio III Manfredi al Monte di Pietà, legalmente riconosciuti gli statuti, constituzioni, decreti e ordinamenti della città; dai i benefizi ecclesiastici della diocesi ai soli Faentini, confermati nella loro autorità e nei loro privilegi l’ufficio degli anziani e del Consiglio generale, con facoltà di far nuovi statuti e riforme e decreti, purchè non contrari al dominio ecclesiastico; erano concessi alla comunità di Faenza i censi, le pensioni, gli affitti già pertinenti alla così detta camera fiscale della città, ed il dazio del sale, e in compenso di tali concessioni, la comunità dovea pagare alla s. Sede l’annuo censo di 1000 fiorini d’oro; tutti gli uffici della città, del distretto, della valle d’Amone e dei vicariati di Russi, Solarolo, Oriolo e Granarolo doveano essere dati ai Faentini dal Consiglio generale, etc. etc.
Tali capitoli furono ufficialmente sanzionati il 10 marzo; e con gli oratori faentini il papa volle mostrarsi cortese tanto da eleggere perfino, di poi, uno di essi, e precisamente il giurista Iacopo o Giacomo Pasi (figlio di quel ser Bartolommeo che trovossi mescolato nella brutta faccenda della congiura contro Galeotto Manfredi) a vescovo della città di Faenza, dopo la morte di Battista de’ Canonici, avvenuta non più tardi del primo aprile.

 

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