Faenza nella Storia _ Cap. 2.1. Il periodo di transizione: da Francesco Manfredi ad Astorgio I (1313-1379)
Cap. 2.1. Il periodo di transizione: da Francesco Manfredi ad Astorgio I (1313-1379)
Come il lettore avrà inteso, la signoria manfrediana non constituisce in Faenza d’un tratto; chè anzi un vero e proprio periodo di transizione intercede fra il regime comunale e quello signoriale; nel qual periodo la nuova forma di governo si disegna quasi timidamente da prima, si confonde con la precedente, appare e dispare, e finalmente si afferma e si consolida.
1313-1314
Divenuto Francesco Manfredi molto potente in Faenza per l’aiuto sopra tutto di Roberto re e della fazione guelfa, non mancarono alla città nostra ben presto segni novelli della protezione accordata. Nel 1313, infatti, i castelli di Frassano, Lanzolo e Salecchio, erano stati confiscati ai loro proprietari (forse i conti Guidi di Modigliana) dalla regia camera; ed ora nel 1314 Frassano e Lanzolo poterono passare sotto la giurisdizione del Comune faentino, cui giurarono obbedienza l’11 giugno, e lo stesso probabilmente fece Salecchio, sebbene non se ne rinvenga la scrittura. Il qual giuramento (i cui atti pubblici si conservano oggi nell’archivio Vaticano) fù fatto dinanzi a Francesco Manfredi, capitano del popolo, al bolognese Bartolomeo de Guidozanni, podestà, al gonfaloniere di giustizia, agli anziani ed ai consoli dei mercanti.
Ma l’accordo di Francesco con la chiesa si mutò ben presto in ribellione aperta ed audace. Quando, dopo la morte di Papa Clemente, il re Roberto ebbe ingiunto al vicario suo di Romagna di assistere con le proprie milizie Pietro, fratello di lui Roberto, inviato in soccorso dè Fiorentini contro Uguccione della Faggiuola, il Manfredi arditamente si sollevò, ed il 9 novembre sottrasse anche Imola alla devozione della chiesa, facendosene egli stesso signore, co’l solito titolo insidioso di capitano del popolo. Nè bastò: chè, stretta lega con i fratelli ravennati Lamberto e Bernardino da Polenta, alla testa di 10.000 fanti e 500 cavalli entrò in Forlì, in aiuto dei Calbolesi suoi amici, per sottrarli alla signoria di re Roberto, e per cacciare gli Orgogliosi; ma gli avversari, validamente sostenuti dalle milizie catalane del regio vicario Simone di Belloc, opposero una tale resistenza che Francesco dovette ritirarsi e venire a patti. E una notizia recata dall’Azzurrini, sotto il medesimo anno 1314, attesta che Faenza, Ravenna, Imola, i conti di Cunio, i Calboli, Righino e Bernardino dei Rogati, tornarono all’obbedienza di Roberto “in tota Italia pro parte guelpha vicarij et capitanei”, pagando alla camera regia, in isconto delle loro ribellioni, 10.000 lire: obbedienza che si dovette ai buoni uffici di Malatestino Malatesti, potestà di Forlì.
1315-1316
Roberto, poi, desideroso di ricondurre in pace la Romagna, vi elesse a suo vicario il fratello Pietro; ma questi, che era anche vicario in Toscana e in Lombardia, stretto dalla necessità di soccorrere i Fiorentini contro Uguccione della Faggiuola, nominò e mandò in sua vece Antonio d’Orso, vescovo di Firenze che nel 1315 giunse in Faenza (essendovi capitano Francesco Manfredi, e potestà il conte Bernardino da Cunio), e quivi il 1° marzo decretò che il castello di Rontana tornasse al dominio faentino, contro l’ingiusta pretesa del precedente conte di Romagna, Giliberto Scintilli. Frattanto i ghibellini di Toscana sconfiggevano le forze guelfe di Pietro; e i Calbolesi di Forlì, collegatisi per cupidità e dominio coi ghibellini Ordelaffi a fine di cacciare da quella città gli Orgogliosi riuscivano nell’intento, con la peggio dei soldati catalani di re Roberto; sì che questi, forse timoroso di tali insuccessi, inviò nel 1316, come novello suo vicario, lo spagnolo Diego di Larat che sconfisse gli Ordelaffi ed assediò Forlì ma concluse finalmente con essi un accordo il 14 settembre.
L’avere nello stesso anno Roberto re conferite le insegne di cavaliere a Riccardo, figlio di Francesco Manfredi, è testimonianza delle buone relazioni che ora correvano tra i Manfredi e il rappresentante della supremazia ecclesiastica.
1317-1318
Succeduto al Larat un Anfuso, e salito al trono il novello pontefice Giovanni XXII Francesco potè edificare nel 1317, su terreno cedutogli dai conti di Cunio, il castello di Granarolo, mentre Faenza, sottoposta da tempo alle censure ecclesiastiche, otteneva d’esser francata dall’interdetto, sì che il 18 agosto 1318, presso il maggior tempio e dinanzi ad immensa moltitudine, Rimbaldo vescovo d’Imola, rettore della provincia nelle cose spirituali, pronunziò la desiderata assoluzione.
1319
All’Anfuso seguirono, come vicari regi, Alfonso di Vaylo e Diego di Larat nuovamente; altri dicono, invece, che ultimo vicario di Roberto fosse un Ranieri da Orvieto: certo si è che il papa, non credendo più oltre opportuna ad altri che sé la nomina del conte di Romagna, elesse poi nel 1319 a tale ufficio Aimerico da Castel Lucio ( di Chalux), con l’ordine speciale di ricuperare dall’Estense al diretto dominio della Chiesa la città di Ferrara.
1322
Poche notizie, del resto, si hanno in questo tempo delle cose della nostra città; ma una importantissima ne registra l’Azzurrini sotto il 1322, quando dice che Francesco Manfredi, capitano del popolo, si fece con la forza chiamar signore di Faenza, e per 4 anni la resse in tal modo come signore; né si sa, né s’indovina per qual pretesto, (se non forse, come direbbe il Tonduzzi, di non riconoscere il conte di Romagna e di non voler pagargli le taglie prescritte) e con quali violenze giungesse al vero e proprio dominio. Troviamo, però, che dal 1322 al ’25 più volte la cancelleria papale rimprovera i pubblici reggitori dé mancati pagamenti, mentre i Manfredi (Riccardo, figlio di Francesco, era stato nel ’22 eletto capitano d’Imola per 5 anni) a tanto di superbia giungevano da imporre al conte di Romagna la revoca di certi processi intorno alle riforme della provincia.
1325
Fino a che una lettera papale e ai figli di lui Riccardo, Alberghettino, e Tino o Malatestino (i quali avevano la signoria di alcuni castelli), co’l tono risentito di chi perde la pazienza, insisteva il 1° giugno 1325 a che fosse rimosso ogni ostacolo al desiderato pagamento.
Se la lettera ottenesse l’intento non sappiamo: ad ogni modo avea Francesco a que’ giorni ben altro da pensare. Riferisce l’ammirato (Hist.fiorent.) che nel 1325 i Faentini soccorsero di milizie Firenze contro Castruccio degl’Interminelli, signore di Lucca, ma furono sconfitti;aiutarono essi, inoltre, i Bolognesi contro rinaldo Bonaccolsi, signore di Mantova e Modena, e furono a parte della rotta a quelli toccata per opera de’ ghibellini.
1326
Aggiungasi che l’elevarsi dei Manfredi era stato causa d’astio e d’ira negli Zambrasi, che avevan preso dimora minacciosa nel loro agguerrito castello di Casalecchio, tra Faenza e Imola; e che Francesco Manfredi, troncando gl’indugi e i sospetti, assediò quel castello nel 1326, e non riuscendo ad espugnarlo, emessegli presso, a tenerlo in freno, un gagliardo battifolle, o fortino. V’ha di più; chè nell’aprile ecco scoppia una lotta tra Faenza e Forlì, per avere gli audaci ghibellini forlivese sottratto Lugo alla giurisdizione di Faenza; accorre il Manfredi cò suoi al ricupero di quella terra, e intanto Francesco Ordelaffi, profittando del buon momento, invade la stessa Faenza: onde guerra e saccheggi e ruberie per due anni, ed aiuti di ghibellini lombardi ai forlivesi fino a che Rinaldo d’Este compose gli avversari a pace, e Lugo fù restituito ai Faentini.
1327
Frattanto papa Giovanni XXII, intimorito da’ progressi viscontei in Milano e dalla ribellione degli Estensi, signori di Ferrara, avea da Avignone mandato in Italia quale legato apostolico, fino dal 1319, il cardinale Bertrando del Poggetto; e questi, accolto in Bologna il 5 febbraio 1327 tra dimostrazioni d’allegrezza, ebbe tosto nelle sue mani il reggimento della città e del contado. L’esempio di Bologna fù subito seguito da Francesco Manfredi (fosse paura od accorgimento politico), il quale spontaneamente commise a Bertrando la signoria di Faenza: ma una cotale sottomissione spiacque molto ad Ostasio da Polenta di Ravenna ed all’Ordelaffi di Forlì, i quali speravano in una resistenza d’Imola e di Faenza, che avrebbe giovato alla resitenza d’Imola e di Faenza, che avrebbe giovato alla resistenza loro: e perciò essi procurarono occultamente di togliere l’una e l’altra città di mano a Francesco ed a Riccardo. Prestarono, adunque i loro favori prima di tutto ad Alberghettino, figlio di Francesco, il quale mirava ad usurpare il dominio del padre: e costui, sostenuto anche da Sichino Manfredi (figlio di Ugolino detto Buzzuola), potè penetrare furtivamente in Faenza la notte 9-10 luglio 1327, profittando dell’assenza del padre, con molta gente d’arme, e cacciarne il podestà Fulcherio, o Fulceri da Calboli, ed insignorirsene. Poi Alberghettino, da quel vero traditor ch’egli era, ricompensò il favore di Sichino mandandolo, sotto colore di negozi da trattar con Ostasio su detto, fuori di città ed in bando.
Quanto ad Imola, Riccardo Manfredi, capitano e potestà di essa, trattò invece nascostamente la cessione della città al legato pontificio; ma scopertosi il suo disegno, il popolo imolese si levò a rumore (1° od 8 settembre), al grido di “muoia Riccardo, muoia il tiranno!”, avventandosi contro alle milizie pontificie, già arrivate a prender possesso d’Imola; ma esse, sostenute dalle genti di Riccardo, tracci gli Alidosi, e forti di 500 cavalieri, dopo aspra lotta sconfiggono i cittadini, quattrocento ne uccidono, e mettono a sacco la misera città, costretta a piegarsi al duro giogo ecclesiastico.
1328
Liberatosi di poi da altri ostacoli, quali i turbamenti di Roma, di Toscana e di Lombardia, dovuti alla discesa del novello imperatore Ludovico di Bavaro (che, vinto nel 1322 il suo competitore Federico III d’Austria, era venuto in Italia a rialzarvi il ghibellinismo), il cardinale legato Bertrando Del Poggetto mosse, il 20 maggio 1328, con un esercito su Faenza, la quale per otto giorni con l’usurpatore Alberghettino validamente si sostenne; poi andò contro Ravenna, che fiera resistette; infine, tornato con le sue soldatesche ad oppugnar Faenza, fattosi padrone del ponte di S. Procolo e rinforzato da nuove milizie, tra cui è fama fossero Francesco e Riccardo Manfredi, dopo venticinque giorni d’assedio costrinse finalmente la forte città e sottomettersi, togliendola ad Alberghettino, ed affidandola, in nome della Chiesa, alle mani del bolognese Guidotto dé Boatieri.
Non altrettanto fortunate furono le armi della Chiesa contro Ravenna e Cervia, dall’assedio delle quali il Del Poggetto ebbe a ritirarsi, mentre l’Ordelaffi di Forlì e il Pentano di Ravenna persuadevano a Ludovico il Bavaro che mandasse nella Romagna, come già un tempo avevano fatto altri imperatori, un suo conte o vicario, per contrapposto al vicario papale. E venne dunque, a rappresentare la potestà imperiale, un tal conte Chiaramente, siciliano, ma con sì scarse forze che a mala pena potè, aiutato da fautori dell’ Impero, prendere e distruggere il castello di Cesenatico.
1329
In Faenza, intanto, co’l ristabilirsi dell’autorità ecclesiastica, ritornavano, il 26 agosto 1329, Francesco Manfredi ed i figli di lui Riccardo e Tino (già altra volta emancipati) di molti beni e castelli, quali Baccagnano, Rontana, Poggiuolo, Montemaggiore, Vedremo, Collina, del Pozzo, Cesato, Solarolo, Gattara, Martignano (con annessi palagi, case, edifizi, molini, terre, acque, vigne, selve, beni mobili) etc.; come pure della ricchezza di Francesco è testimonianza sicura il prestito di buona somma di danaro da lui fatta al Comune e per esso al potestà Passerino della Torre, che il Tonduzzi dice rettore di Faenza per la Chiesa.
Quanto ad Alberghettino, scontò costui ben presto il fio dé suoi tradimenti; chè trattenuto, secondo i patti, prigioniero in Bologna, e quivi entrato in congiura con la fazione de Maltraversi (per la quale il dominio di quella città sarebbe passato dalla S.Sede a Ludovico il Bavaro), fù scoperto, processato e decapitato il 13 novembre, insieme con altri complici. Aveva egli in moglie una Giacoma di Giovanni d’Ugolino Ubaldini, e lasciò i figli Giovanni, Bernardo, Giovanna e Maddalena.
1331
Fallito come quello d’Enrico VII, il novello tentativo imperiale del Bavaro, ecco un altro avventuriero tentare in Italia la fortuna: Giovanni re di Boemia, figlio d’Enrico VII. Invitato da 1331 guelfi bresciani, che erano minacciati da Mastino della Scala, riuscì Giovanni a fondare nel 1331 nell’alta Italia una considerevole signoria di varie città che a lui si dettero; e poiché in sostanza egli nuoceva a’ ghibellini più che ai guelfi, il Del Poggetto fece alleanza con lui. Divenuto così più temibile, potè il legato riaver in obbedienza Ravenna, ed il 4 maggio, con l’aiuto di Malatesta di Pandolfo, potè cacciare da Rimini Ferrantino Malatesti, e sottomettere anche tale città; poi il 7 agosto pose l’assedio a Forlì con milizie raccolte da Cesena, Rimin, Ravenna, Bologna, Faenza, Imola. Forlì sisostenne ben sette mesi, durante i quali, morto Cecco Ordelaffi pe una caduta da cavallo, gli successe nella signoria il fratello Francesco: e questi, dopo avere con grande valore persistito nella difesa ebbe ad arrendersi onorevolmente.
1332
I patti della resa furono definiti a Faenza il 18 marzo 1332, e sembra che tra essi fosse l’investitura della signoria di Forlimpopoli all’Ordelaffi, in compenso de perduto dominio.
Ma contro Giovanni di Boemia (al cui servizio militava Riccardo Manfredi) ben presto si erano uniti i signori danneggiati e minacciati da lui,senza badare a partito, nella lega di Castelbaldo (Scaligeri, Estensi, Roberto re di Napoli, Firenze, Azzone Visconti 18 ag. 1331), onde in breve si sfasciò l’effimera signoria del Boemo (e strettamente combattè, in cotesta fazione, Riccardo Manfredi), e si dice perciò a battere il territorio ferrarese con le milizie ecclesiastiche rafforzate da quelle delle città romagnole sottomesse, e comandate dal francese conte d’Armagnac.
1333
Gli Estensi, forti de’ soccorsi delle città confederate, assalirono il 14 aprile 1333 i pontifici con grande impeto, e li sbaragliarono. Vuolsi fosse quella una delle maggiori vittorie del secolo; e tra prigionieri, oltre lo stesso Armagnac, furonvi Malatesta e Galeotto Malatesti, Ostasio da Polenta, Francesco Ordelaffi, Lippo Alidosi i conti di Cunio e di Bagnacavallo: i quali tutti ben presto l’Estense mise in libertà, co ‘l segreto disegno di stringerli a sé in nuova alleanza, per sottrarsi poi tutti insieme all’abborrita signoria ecclesiastica. Fatto è che i fratelli Malatesti, pacificatisi co ‘l cugino Ferrantino, s’impadronirono nuovamente di Rimini, il 22 settembre; che Francesco Ordelaffi, la notte del 12 dello stesso mese entrato di sorpresa in Forlì la ritolse a’ magistrati ecclesiastici (quali si rifugiarono a Faenza), e s’impadronì anche di Forlimpopoli che, infine, Ravenna, Cesena, Cervia, Bertinoro cacciarono parimente i ministri pontifici.
Restavano, adunque, nell’obbedienza della Chiesa soltanto Bologna, Imola e Faenza; in Faenza, anzi, pare che il Del Poggetto avesse rimesso nel primato e nel governo della città, da qualche mese, Riccardo Manfredi (Francesco, padre di quest’ultimo, sembra si fosse, in certo qual modo, ritirato dalla vita politica); ed ora premendogli di conservare almeno quel poco che gli era rimasto, fece avere allo stesso Riccardo le lodi papali, in ricompensa della sua fedeltà, con lettera del 4 settembre 1333. Ma ormai l’edifizio ecclesiastico in Romagna si andava sfasciando.
1334-1335
Brandaligi de’ Cozzadini sollevò anche i Bolognesi il 17 marzo 1334, sì che il vicario papale Bertrando dovette partirsene, accompagnato da nobili personaggi di parte Guelfa, tra i quali Riccardo predetto, da cui fù affidato alla protezione de’ Fiorentini; ed al rumore della rivolta bolognese eziandio Bagnacavallo insorse, e atterrò il suo castello; ma di essa l’anno di poi s’impadroniva notte tempo Tino, fratello di Riccardo riedificandovi la distrutta rocca (18 agosto 1335).
Così finiva miseramente la legazione di Bertrando del Poggetto, restando restando nelle varie città d’Italia i loro signorotti; solo Faenza ed Imola si conservarono fedeli all’autorità papale; ed in Faenza come s’è detto, predominava Riccardo Manfredi, quale rappresentante del governo ecclesiastico; in Imola (sebbene il Tonduzzi, pag.404, sulla scorta del Chiaramonti, sostenga che v’era signore parimente Riccardo) era stato dal papa creato vicario Lippo Alidosi, che trovavasi tuttavia in cotal carica nel 1340.
1336
Morto Giovanni XXII il 4 dicembre 1334, gli era successo in Avignone Benedetto XII; e questi, sull’entrare del 1336, spedì, come novello conte di Romagna, Guglielmo di Arnaldo de Querio (detto anche del Querco, o della Quercia), il quale giunse il 18 gennaio in Faenza, come a sua sede, e vi indisse una generale adunanza della provincia, che ebbe luogo il 10 marzo. Ma ben poco vi si concluse: onde il papa non bastando l’autorità di Guglielmo a vincere gli alteri spiriti romagnoli, inviò come nunzio apostolico un Bertrando arcivescovo, che intimò una nuova adunanza per il 10 novembre in Faenza; ma poiché i rappresentanti della città vi intervennero con visibile ritrosia, anche il nunzio lasciò l’impresa siccome disperata, e si ritirò nel castello di Rontana, nel modo stesso che Guglielmo erasi ricoverato co’ suoi ufficiali a Meldola.
1337
L’anno di poi (1337) moriva Tino di Francesco Manfredi, signore di Bagnacavallo, e lasciava i figli Francesco, Riccardo, Alberghetto, Margherita ed Anna, avuti da una Madonna nobile; e intanto ricominciavano le agitazioni e le piccole guerre, non cedendo il vecchio odio di parte neanche dinanzi ai vincoli di parentela.
1338-1339
Nel 1338 essendo Francesco Manfredi, il vecchio, potestà di Castrocaro, comprò detta terra da Fulcherio de’ Calboli, che ne era signore, per 6000 fiorini d’oro; si sdegnò per tal vendita Francesco Ordelaffi, nipote di Fulcherio, onde nell’estate del ’39 mosse contro il castello di Calboli con milizie di Cesena, Rimini, Ravenna; ma quivi sopraggiunse a difesa Riccardo Manfredi, e dopo fiera battaglia l’ordelaffi fù vinto. E la pace fù conclusa per intromissione dei Fiorentini.
1340
Il 22 luglio, poi, del 1340 il conte Manfredo da Cunio toglieva ai Polentani la terra di Lugo; ed il 23 agosto dello stesso anno moriva anche Riccardo Manfredi, lasciando soltanto una figlia legittima, Rengarda, natagli dalla contessa Diletta di Alberico da Cunio, e i due figli naturali Giovanni e Guglielmo (avuti da una Zeffrina Nordigli d’Imola ), ch’egli avea legittimati e creati cavalieri, a fine di farli eredi di ogni facoltà e grado suo. Ma sembra che, almeno a fine di farli eredi d’ogni facoltà e grado suo. Ma sembra che almeno per rispetto e venerazione del vecchio Francesco loro avo, costoro lasciassero a lui, fin ch’ei visse, la vera direzione del governo; e troviamo, infatti, che sorte fiere discordie tra i Manfredi e i Rogati, sebbene fossero tra loro congiunti in parentela, Francesco espulse i Rogati dalla città il 17 ottobre.
1341
Intanto, mentre al rettore della Romagna Rimbaldo, vescovo d’Imola (che resse la provincia dal ’39 al ’41), succedeva un Filippo d’Antilla (o Antella?), del quale ben poco si sa, il consiglio generale di Faenza, nella sua seduta del 27 dicembre 1341, eleggeva a capitano del popolo Giovanni di Riccardo Manfredi; e proprio in questo tempo novello impulso acquistava la parte guelfa romagnola.
1342
Morto, infatti, Benedetto XII, il novello papa Clemente VI elesse nel 1342 a conte di Romagna Aimerico di Rolando, signore di Vallone; ed intorno a quest’ultimo si strinsero ora, insieme co’ Manfredi, i ribelli di prima, ciò è i Malatesti e i Polentani, l’estense e Mastino della Scala, Taddeo Pepoli di Bologna; così che la parte ghibellina (i visconti, i da Carrara di Padova, i Gonzaga di Mantova) non avea ora in Romagna altri rappresentanti se non l’Ordelaffi.
Ma il guelfismo si rialzò anche per altra ragione. La guerra tra Firenze e Pisa per il possesso di Lucca (1341) e la terribile gran compagnia di venturieri tedeschi, guidata da Guarnieri di Urslingen e perturbatrice delle belle contrade italiche, indussero in questo tempo Ostasio da Polenta ed altri piccoli signori di Romagna (tra cui i Malatesti di Rimini, e Taddeo e Giovanni Pepoli di Bologna) a concludere una lega guelfa con gli Estensi di Ferrara e con Firenze, conto il Visconti di Milano, il Gonzaga di Mantova, gli Ordelaffi e i Pisani: e nel settembre del 1342 la gran compagnia entrò in Romagna e saccheggiò il riminese, senza che il Malatesti potesse opporvisi.
1343
Giunta la gran compagnia presso a Faenza, dovette ritirarsi dinanzi ai confederati guelfi, che s’erano gagliardamente fortificati lungo le rive dell’Amone (ottobre 1343). Taddeo Pepoli, poi, con abili accordi, la staccò dalla parte ghibellina, e per danaro la trasse al servigio dei guelfi.
Era morto, frattanto, il 29 maggio del 1343, il vecchio Francesco Manfredi, che avea veduto soccombere l’uno dopo l’altro i suoi tre figli legittimi, natigli da Rengarda Malatesti di Rimini: Alberghettino, decapitato nel 1329, Tino e Riccardo; e di lui vivevano ancora i figli naturali Natimbene, che fù vescovo di Trivento nel regno delle due Sicilie, e Beltrame, che morirà tragicamente, come vedremo nel ’63. Il predominio nella città passò or dunque né figliuoli riconosciuti di Riccardo, Giovanni e Guglielmo, sotto i quali gravi destini si maturarono.
1347
Nel 1347, infatti, quando Aimerico, rettore di Romagna residente in Faenza, volle esercitare un più severo e diretto governo, ed abbassare la potenza di Giovanni, questi si ritirò a Bagnacavallo, che ei levò in aperta ribellione alla chiesa. Aimerico allora imprigionò Guglielmo, fratello di Giovanni, minacciando di decapitarlo ove Giovanni non restituisse Bagnacavallo; se non che, commosso poi dalle preghiere dé principali cittadini, rilasciò Guglielmo, e strinse sì fattamente d’assedio Bagnacavallo che Giovanni cedette la terra, ottenendo in compenso il libero possesso d’ogni suo avere, e con esso la facoltà di dimorare a Faenza, ove tornò.
1348
L’anno seguente, 1348, Giovanni d’Alberghettino Manfredi prese a fare segrete pratiche per sottrarre Faenza al rinnovellato dominio della chiesa; ma questa trama, ordita proprio nel tempo stesso che infieriva la terribile pestilenza onde tutta Italia fù percossa, venne scoperta dal novello conte di Romagna Astorgio di Durafort (detto il Duraforte), e il Manfredi fù lesto a ricoverarsi nel suo castello di Solarolo; fino a che, perdonato con i complici suoi (eccetto un Guglielmo Bonzanino che per altri delitti finì sul patibolo), Giovanni d’Alberghettino tornò anch’egli in concordia a Faenza.
1349
A meglio confortare, anzi, i suoi sentimenti benigni verso i Manfredi e i loro aderenti, il conte di Romagna (che stava ora, come sappiamo, in Faenza) offrì loro il giorno di Pasqua, 12 aprile 1349, uno splendido banchetto; nel quale Giovanni di Riccardo (non Giovanni d’Alberghettino, come vorrebbe Matteo Villani, I, cap.54), eccitato dal vino,domandò al conte il permesso di assalire la cucina e la casa del vescovado, non avendo il vescovo mandato à Manfredi una gallina con dodici pulcini di pasta e con carne cotta, per ragione di padronatico (ossia di perpetuo censo, attesa la concessione di certi beni dai Manfredi fatta al vescovado). Sedeva allora sulla cattedra episcopale faentina il francese Stefano Beneri, o di Binerio, che il 23 dicembre del ’47 era stato nominato papa rettore della provincia nelle cose spirituali, e che era successo in Faenza a Giovanni dé Brusati, a sua volta successo a quel vescovo Ugolino di cui già facemmo menzione. Alla strana richiesta di Giovanni, il Duraforte dié inconsideratamente il suo assenso; ma le milizie d’esso conte, meravigliate e preoccupate della radunanza degli armati manfrediani che stavano per muovere all’assalto del vescovado, si fecero loro incontro, onde s’appiccò una terribile e micidiale zuffa, nella quale furono morti alcuni amici del Manfredi, con molto suo sdegno e dolore. Da ciò sembra si maturassero nell’animo di Giovanni di Riccardo disegni ostili, di liberare, ciò è, Faenza dalla s.Sede, e farsene novellamente e pienamente signore.
1350-1351
Fatto è che egli, colta l’occasione dell’assenza di Astorgio Duraforte (il quale erasi recato per pubblici affari in Avignone, conducendo seco per garanzia il fratello di Giovanni, Guglielmo), il 26 febbraio 1350 si levò cò suoi a rumore contro le milizie del luogotenente del Duraforte, finchè sopraggiuntigli aiuti di val d’Amone e da Bernardino da Polenta, non costrinse quel luogotenente provenzale alla fuga.
Fattosi per tal modo un’altra volta signore, Giovanni di Riccardo rafferma la sua potenza mercè a una segreta lega con gli Ordelaffi di Forlì, co’l polentano di Ravenna e con i Pepoli di Bologna, assolda 500 barbute tedesche del capitano di ventura Guarnieri di Urslingen, nomina potestà il proprio fratello Guglielmo; e si sostiene poi validamente contro il Duraforte, tosto ritornato con 3000 uomini di Romagna, perché sebbene il conte di Romagna vincesse al ponte di S.Proloco le milizie Manfrediane il 24 maggio, pure assediò invano dal 7 maggio al 7 luglio il castello di Solarolo, che ubbidiva ora a Giovanni di Riccardo. Il 9 novembre di quello stesso anno questi atterrò il castello di Cesato (la castellina, dove nel 1285 avvenne il truce fatto delle “frutta del mal orto”), perché gli avversari non se ne impadronissero, e il 10 aprile del ’51 occupò il castello di Limacidio, cacciandone i Rogati, seguaci di parte guelfa. Intanto i Pepoli avevano venduta Bologna all’arcivescovo di Milano Giovanni Visconti; e Bernabò Visconti, profittando della discordia fra il conte di Romagna e le sue milizie privo del soldo, s’era impadronito di Fognano, Doccia, Castel S.Pietro, Lugo; onde Giovanni di Riccardo Manfredi, sempre più imbaldanzito, assumeva perfino il comando con Francesco Ordelaffi, delle milizie viscontee, mandate dal vicario del predetto arcivescovo, Giovanni Visconti da Oleggio, ad assediare Imola, la quale fù ben difesa da Roberto Alidosi, vicario per la s.Sede.
1352
Per cotali ribellioni alla chiesa, i due fratelli Manfredi, Giovanni e Guglielmo (quest’ultimo continuava nella carica di potestà anche nel 1352, avendo a suo vicario Bartolomeo Braizoli, reggiano), furono ai 5 d’aprile di tale anno citati dal pontefice, insieme con Giovanni di Vico signore di Viterbo e di Orvieto, a comparire entro tre mesi in Avignone, per render ragione eziaudio delle loro credenze religiose, divenute sospette ormai per lo sprezzo che da tempo palesavano verso la s.Sede; né avendo essi obbedito, furono scomunicati con bolla del 9 luglio di quello stesso anno, insieme con l’Ordelaffi di Forlì.
1353
L’ anno di poi, morto Clemente VI, fù eletto il novello pontefice Innocenzo VI (6 dec.1353); e questi, a domare finalmente l’orgoglio dè ribelli signorotti delle terre usurpate alla chiesa, ed a riordinare lo stato ecclesiastico, mandò il 30 giugno in Italia, qual suo legato a latere, il celebre cardinale Egidio Albornoz, il quale s’avanzò per la via di Toscana con buon nerbo di milizie francesi, tedesche ed inglesi, mentre dal 1° settembre era eletto conte di Romagna il vescovo di Torcello, Petroccino de Casaleschi. Grandi pericoli, adunque, sovrastavano ora a Giovanni d’ Alberghettino.
1354
Già quest’ultimo aveva accampati certi diritti su i possedimenti di Giovanni di Riccardo fuori del territorio faentino, e dagli arbitri eletti a risolvere la controversia era stato dichiarato dalla parte del torto: il 3 di luglio 1354, poi, fù scoperta presso s. Maria fuori portam una congiura dello stesso Giovanni d’Alberghettino, ordita per togliere al consanguineo la signoria di Faenza; e la cosa finì con la carcerazione e la morte di molto complici.
1355
Ma era appena Giovanni di Riccardo uscito da cotale pericolo, che una ben più grave minaccia venne a colpirlo. Con lettera del 1° febbraio del 1355 il cardinal legato Egidio Albornoz ribadiva la scomunica contro l’Ordelaffi e i fratelli Manfredi, e sottoponeva all’interdetto ogni terra che obbedisse ai ribelli. Né ciò bastando, mentre giovanni di Riccardo, con audacia pari all’ energia, si preparava a resistere, demolendo il castello di Porta Ponte (già eretto, per tenere in freno la città, da Aimerico di Vallone, rettore di Romagna), il 17 decembre dello stesso anno papa Innocenzo VI faceva bandire dal patriarca Fortanerio di Ravenna, nella cattedrale di Rimini, una crociata contro i Manfredi e gli Ordelaffi, concedendo indulgenze a quanti avessero preso le armi contro di loro.
1356
E il 2 maggio 1356 l’esercito della chiesa mosee adunque contro i ribelli, e diè il guasto nel forlivese, trattenuto nelle sue operazioni dalla presenza della compagnia del conte Lando, il quale correva la provincia quale temuto saccomanno. Poi l’Albornoz, con le sue genti, postosi a campo al ponte di s.Proloco, che fortificò con una bastìa, venne a stringer d’assedio Faenza; la città resistette fortemente ben cinque mesi, ma alla fine Giovanni di Riccardo venne nel novembre a trattative, per le quali Faenza e le annesse castella erano cedute al diretto dominio ecclesiastico, ottenendo però il Manfredi in compenso il possesso di Bagnacavallo, a modo di feudo della chiesa. Così il 17 dicembre il cardinal Egidio, alla testa delle milizie papali, faceva il suo ingresso trionfale in Faenza; e Giovanni di Riccardo ne era già uscito, ma prima aveva voluto, a detta del Villani, lasciare nella sua patria degni ricordi, opprimendo, facendo requisizioni di denaro, uccidendo chi gliera in sospetto.
1357
Restava da sottomettere il fiero Francesco Ordelaffi, signore di Forlì e di Cesena, quando l’Albornoz fù richiamato dal papa, e gli fù sostituito Androino de Rocha, abate di Cluny, più adatto al breviario che alle armi; il quale, venuto a Faenza il 12 aprile 1357, si avviò verso Fano per recarsi a un parlamento convocatovi dal suo predecessore, in cui furono date le famose constituzioni egiziane, o nuovi statuti per le provincie papali, così dette da Egidio Albornoz che ne fù l’autore. L’Albornoz, però accettò di rimanere qualche tempo ancora in Romagna, ancora per compiere la sottomissione dei ribelli: e così avvenne che alla fine d’aprile di quell’anno Cesena tornò all’obbedienza, nonostante l’eroica difesa di Marzia Ubaldini, forte e animosa moglie dell’Ordelaffi; seguì poi la resa di Bertinoro.
1358
Stretto dall’ impegno di 1358 partire per Avignone, l’Albornoz affidò la cura di prendere Forlì all’abate di Cluny, il quale nel 1358 non riuscì nell’impresa, valorosamente respinto dall’Ordelaffi.
Intanto la compagnia del conte Lando muoveva verso la Toscana per recarsi in condotta a Siena, e penetrata nella valle d’Amone, vi commetteva i consueti saccheggi. Ma quivi male le incolse: chè un centinaio di villani circa, sudditi dei conti Guidi di Modigliana e di Giovanni d’Alberghettino Manfredi (ch’era signore di Marradi, Castiglione, Biforco etc.), sorpresero tali mercenarie milizie in un malagevole passo, detto “le scalette”, tra Biforco e Belforte, e con una fitta grandinata di pietroni e di sassi, precipitati giù dai balzi soprastanti, fecero scempio di quei saccomanni, uccidendone più di trecento, e prendendo prigioniero lo stesso conte Lando. Dicono alcuni storici che què villani fossero guidati da giovanni d’Alberghettino in persona; il che non sembra verosimile, se Matteo Villani (Cron. Fiorent.lib. VIII, cap.75) attesta essere stato il prigioniero conte Lando menato “ alla donna di messer Giovanni d’Alberghettino; e la donna, non essendo ivi il marito, il fece menare a Giovacchino degli Ubaldini, suo fratello, a Castelpagano”. I superstiti della compagnia, fatto, per mandato dell’Ordelaffi, un ricco bottino in quel di Ravenna e d’Imola, lo recarono poi a Forlì, a conforto dè cittadini stretti dalla mancanza di viveri; e ridivenuti poi baldanzosi ed audaci, tentarono sullo scorcio d’agosto di assalire, presso a Faenza, uno dei borghi della città (forse quello d’Urbecco), ma furono respinti.
1359
A fiaccare finalmente la ribelle Forlì mandava il pontefice di nuovo in romagna il cardinale Albornoz; e questi, allontanata con danaro la compagnia del conte Lando, e tolto così all’Ordelaffi un efficace mezzo di difesa, sì fattamente lo strinse, che quegli fù costretto a cedere la città il 4 luglio 1359, ottenendo in compenso, a modo di feudo ecclesiastico, Forlimpopoli e Castrocaro per dieci anni.
1360
Quando, poi, nel 1360, Bernabò Visconti mosse contro Giovanni Visconti da Oleggio per togliergli Bologna da lui troppo dispoticamente tenuta, l’Oleggio consegnò piuttosto la città alle milizie dell’Albornoz: ma Bernabò non volle desistere dall’impresa, e ben presto subornò alla ribellione contro la chiesa Giovanni di Riccardo Manfredi e l’Ordelaffi.
1361-1363
Già il Manfredi, preparandosi alla riscossa, avea rifornito di vettovaglie Bagnacavallo: e certo si è che nel 1361, insieme con l’Ordelaffi, assaliva e incendiava Porto Cesenatico, menandone prigioni e preda di molta mercanzia, per il valore di 12000 fiorini d’oro; onde per punirlo gli furono in Faenza atterrate le case ai 24 di marzo, d’ordine del rettore della provincia, Aimerigo Cavalcanti. Certo si è, parimente, che in quel medesimo anno Giovanni di Riccardo, insieme con l’Ordelaffi e con un famiglio di Roberto Alidosi, tramava inutilmente di sottrarre Imola alla chiesa; e che un altro vano tentativo egli fece, d’accordo con i figli Francesco e Astorgio, su Faenza e su Solarolo. Al qual tentativo molto probabilmente si riferiscono quelle inutili cospirazioni a favore di lui che, se non nel 1360 (come vorrebbe il Tonduzzi, p. 426, cui si oppone il Valmigli, VIII, 100), certo avvennero nel 1362, dappoichè troviamo che il 17 gennaio del 1363 Beltrame Manfredi, figlio naturale di Giovanni di Riccardo, nelle carceri del Comune di Faenza detta il suo testamento.
1364
Il Tonduzzi afferma (p. 430) che quando poi, nel 1364, Bernabò Visconti fece pace con la chiesa, trattando co’l nuovo cardinal legato di Bologna Androino di Cluny (sostituito all’Albornoz dal novello papa Urbano V), e restituendo alla s.Sede Lugo, Crevalcore e le altre terre occupate, nei benefici di tal pace fù compreso anche Giovanni i Riccardo Manfredi; il Valgimigli, però, mostra di dubitarne (VIII, 114), e ad ogni modo non riebbe Giovanni di Riccardo per nulla la signoria di Faenza, se (a detta dello stesso Tonduzzi) il Manfredi fù dal cardinal legato, in virtù del detto accordo, invitato a non molestare le terre della chiesa, mentre d’altro canto era fatto invito a Ravenna, Imola, Forlì, Faenza (ciò è alle città direttamente dipendenti dal governo papale) di non molestare alla lor volta il Manfredi.
1365-1368
Mentre, frattanto, susseguivansi l’uno all’altro, nel rettorato della Romagna, Ugolino da Corbara, conte di monte Marzio, e Daniele dè marchesi Del Carretto, frate gerosolimitano (il cui vicario Petroccino, arcivescovo di Ravenna, radunò, il 9 marzo 1365,in Forlì la consueta adunanza provinciale), il papa richiamava dalla legazione di Bologna il cardinale Androino e gli sostituiva il proprio fratello card. Anglico Grimoard, che entrò in Bologna il 5 maggio del ’68, seguito da un nobile corteggio,di cui facevan parte Francesco Gonzaga, Francesco e Marsilio Da Carrara, Niccolò ed Ugo d’Este, Azzo e Bernardino Alidosi, Galeotto e Pandolfo Malatesti, Guido da Polenta, Giovanni di Riccardo Manfredi, e il cugino di quest’ultimo Giovanni d’ Alberghettino.
Ciò non tolse che il novello facesse ben presto un brutto tiro a Giovanni di Riccardo. Avea questi, come sappiamo, il dominio di Bagnacavallo; ma i Bagnacavallesi, stanchi del suo dispotico governo, si rivolsero al card.Anglico, il quale nella notte del 26 settembre assalì con le milizie pontificie e ebbe di sorpresa Bagnacavallo (e poco mancò non vi facesse prigioniero lo stesso Giovanni di Riccardo); alla qual perdita in quel medesimo anno tenne dietro quella di Brisighella e dè castelli di Solarolo, Modigliana, Rontana, restando a Giovanni soltanto le rocche di Calamello, Fernacciano, s.Cassiano, quantunque di quest’ultima ben poco oltre godesse il possesso.
1369
Dal che si comprende come erri il Tonduzzi quando afferma (p.434) che l’esodo di molte nobili famiglie faentine dalla città nel 1369 era dovuto alla prepotenza dè Manfredi; chè Giovanni di Riccardo, non che signore di Faenza, neppur più era padrone di Bagnacavallo, e molto scadute erano ormai l’autorità e la potenza di lui, il quale, per giunta, tre anni prima era stato costretto a pagare alla mensa vescovile la cospicua somma di 1000 ducati d’oro, per aver perduta una lite contro il vescovo Stefano Beneri.
1371
Contro ogni possibile tentativo manfrediane stava, del resto, bene in guardia la chiesa; e dal card.Anglico 1371 surricordato è fatta testimonianza come nel 1371 fù eretta a custodia e difesa di Faenza quella rocca che sorgeva nel borgo di Porta Imolese, dove oggi giace l’ospedale civile (cfr.p.107),e che non è punto da confondere con l’altra, eretta nel 1241 da Federico II presso la odierna chiesa del Carmine (cfr.p.61); la qual rocca di porta Imolese fù in gran parte atterrata nel 1753.
1372
Mentre riprendevasi la guerra contro il Visconti, e il terribile condottiero inglese Giovanni Hawkwood, detto comunemente l’Acuto, passava con disinvoltura dal soldo di Bernabò a quello della chiesa, rialzando così le sorti della armi pontificie, moriva nel 1372, a quarantotto anni, il tristo ma sventurato Giovanni di Riccardo Manfredi, che s’era rifugiato nel contado di Pistoia (al dir dell’Ubertelli cronista) dopo aver perduto ogni suo dominio (il 5 maggio del precedente anno, secondo l’Azzurrini, l’esercito della chiesa gli avea occupato l’ultimo castello da lui posseduto, ossia Calamello); e di lui rimasero due figli, Francesco ed Astorgio, natigli dalla consorte Ginevra dè Nobili di Mongardino, la quale avergli partorito altresì due figliuole, Isabella e Zeffirina: quella, moglie di Ludovico d’Alberico da Barbiano, conte di Cunio; e questa, moglie di Feltrino di Matteo Boiardo da Reggio.
1374
Ma contro l’odioso dominio ecclesiastico e i suoi degni rappresentanti francesi (all’Anglico erano successi, nella legazione, prima il card. 1374 Bituricense Pietro d’Esteing, e poi nel 1374, Guglielmo di Noellet) non tardò a manifestarsi l’insofferenza delle città sottomesse; e fù pronta a soffiar nel fuoco della ribellione la repubblica di Firenze, che avea già veduta con paura la fortunata impresa dell’Albornoz, ed ora temeva forte che, rafforzandosi lo stato papale, questo cercasse estendere il suo dominio anche in Toscana.
1375
Avea, del resto Firenze ben ragione di diffidare, dappoichè, visto vano ogni altro sforzo, il cardinal legato, sulla fine di giugno del 1375, eccitò l’Acuto (che una recente tregua della chiesa co’l Visconti avea lasciato inoperoso e senza denari e vettovaglie) a gettarsi co’ suoi su la Toscana; e i Fiorentini, non potendo difendersi con le armi, anche perché da ciò sconsigliava la vicina raccolta di quelle messi di cui la città avea tanto bisogno, dovettero sborsare a quel terribile duce, perché si ritirasse, 30000 fiorini.
Si venne, adunque, ben presto a guerra aperta tra il papa e Firenze; e questa, per vendicarsi del perfido contegno della chiesa, si alleò co’l Visconti, con la regina di Napoli, con le repubbliche di Siena, Lucca, Arezzo, ed offrì il suo soccorso a quante città dello stato ecclesiastico amassero scuotere quel giogo divenuto ormai, per le rapine e le violenze dè reggitori pontifici, addirittura insopportabile. In Romagna, così, insorsero prima i forlivese e poi più di altre settanta terre. Faenza non osò ne potè ribellarsi, soprattutto per la presenza del rettore della provincia, che in essa risiedeva con le sue forze, e che era il vescovo di Tarracona. I Fiorentini si dettero allora a subornare il giovine Astorgio Manfredi, figlio di Giovanni di Riccardo, il quale, di spiriti irrequieti e ardimentosi, covava nell’animo il vivo desiderio di ricuperare la signoria paterna.
1376
Astorgio, senza farselo dir due volte, prese per tradimento del castellano, la rocca di Granarolo (1376), e di colà nulla lasciava d’intentato per suscitar tumulti in Faenza, che gli aprissero la via a recarla in sua mano. Se non che il card. Legato di Bologna, avuto sentore di ciò, fù sollecito ad inviare l’Acuto a ricuperar quella rocca; ma erano passati appena pochi giorni da che quel capitano inglese erasi posto a campo presso a Granarolo, quando il 21 marzo 1376 gli giungeva come un fulmine la notizia della ribellione di Bologna contro la Chiesa.
Bollente di furore ed incerto su’l da farsi, pensò allora l’Acuto esser miglior consiglio quello d’occupare e di sostenere Faenza, rimasta ancora nella fedeltà al pontefice, contro ogni possibile sollevazione; e piombò su la nostra misera città, prese la rocca, lasciò che i suoi mercenari, mal pagati ed avidi di rapina e di sangue, inferocissero bestialmente contro i cittadini, le case, le robe:quattro ore di feroce sacco (durante il quale furono stracciate e bruciate le scritture del pubblico archivio), in nome e in difesa della s. Sede, disertarono così, il 22 marzo, Faenza, tanto che vuolsi fossero costrette a fuggire dalla città ben undicimila persone. Alcune famiglie si rifugiarono ad Imola ed a Forlì: altre trovarono scampo in alcuni castelli tenuti da Astorgio, il quale, premuto ora da fatti e dalle necessità, si pacificò con Giovanni d’Alberghettino, divenuto capitano delle milizie della ribelle Bologna.
Intanto papa Gregorio XI, successo ad Urbano V, trasferita nuovamente la corte papale da Avignone a Roma aveva assoldato un esercito di 10000 venturieri bretoni, affidandone il comando al card.Roberto dè conti di Ginevra, co’l titolo di legato apostolico e con l’ordine di riconquistare alla chiesa le ribelli città di Romagna. S’ avviò, dunque, Roberto a Bologna, con larghe promesse di perdono; ma riuscendo esse vane, lasciò libero sfogo all’anima crudele, e mise tutto il contado a ferro ed a fuoco. Mentre Bologna era così gravemente minacciata, e Faenza trovatasi stretta nella ferrea morsa dell’Acuto, gli abitanti d’un castello del territorio faentino, Laderchio, sottoponevano sé stessi ed ogni loro avere ad Astorgio Manfredi, con atto pubblico dell’8 settembre, certamente per trovare in lui protezione contro ogni possibile assalto dei saccomanni ecclesiastici; dal quale atto si apprende anche che molti di quei castellani s’erano già prima recati con Astorgio a cacciare dalla rocca di Rontana il presidio ecclesiastico che vi risiedeva.
1377
Soltanto Faenza, Cesena e Bertinoro (dove il card. Di Ginevra avea, dal territorio bolognese, condotte a quartiere le sue milizie) rimanevano, adunque, a devozione della chiesa, quando i Cesenati, insofferenti delle prepotenze e rapine dè Brettoni, si levarono strenuamente contr’essi, ponendoli in fuga; ma il perfido cardinale, indotti i rivoltosi con buone promesse a deporre le armi, chiamò da Faenza l’Acuto con le sue milizie, le quali penetrate in città la notte 2-3 febbraio 1377, ed unitesi ai Brettoni, compierono in Cesena, consenziente Roberto, le più orribili stragi e i più bestiali saccheggi: ben cinquemila cittadini furono sgozzati senza pietà, ottomila circa si salvarono con la fuga, ed allo scellerato cardinale rimase l’appellativo di beccaio dè Cesenati. Né basta; chè non essendo què masnadieri soddisfatti del bottino, il legato pontificio, a contestare le pretese di essi, si risolse di vendere Faenza a Niccolò d’Este, marchese di Ferrara, per il prezzo di 20000 fiorini d’oro (alcuni storici dicono 40000); ed il 6 aprile Selvatico dè Boiardi, capitano generale delle milizie estensi, entrava nella misera città, dove si partì il 18 dello stesso mese l’Acuto, dopo averla tenuta in sua balìa (obbrobrioso ricordo!) un anno e ventinove giorni.
L’acquisto di Faenza da parte di Niccolò d’Este suscitò fiera doglia nell’animo di Astorgio Manfredi, il quale per avere già occupati i più de castelli del faentino e per essersi collegato cò Fiorentini e cò l Visconti, coll’ Ordelaffi e con gli Alidosi d’Imola, si potè accingere ora all’impresa della ricuperazione della città con buona speranza di riuscita, tanto più che avea dentro di essa il favore di non pochi amici. Posto, adunque, da prima invano l’assedio alla rocca di Faenza, il 24 luglio 1377 potè entrare finalmente di nascosto per un canale nella città, e farla sua; e dopo venti giorni s’arrese a lui anche la rocca, nonostante che su i primi di agosto il cardinale di Ginevra vi avesse spedito un rinforzo da Cesena.
1378
Il rinnovato dominio manfrediano in Faenza, sebbene (come si vedrà presto) non duri ininterrotto fino alla fine, pure ha ormai caratteri di vera signoria: Astorgio, infatti assume ufficialmente il titolo di magnifico signore (dominus) e di capitano generale (come risulta da un rogito del 6 maggio 1378, nel quale si ricorda un Paolo Tebaldi da Reggio, potestà di Faenza “pro magnifico domino Astorgio de Manfredis dicte civitatis domino et capitaneo generali”); ha un suo vicario nella persona d’un Giovanni dè Bazolini (ufficio, questo, di cui si ha ora il primo ricordo, in uno strumento del 4 maggio, “actum Faventie, in pallaccio populi, in camara residencie domini Iohannis de Bazolinis, vicarii magnifici domini Astorgii de Manfredis”); batte, infine, moneta con la sua propria insegna e co’l suo proprio nome.
Vero è che un rogito del 10 decembre 1398 (Arch.notarile di Faenza) attesta che la zecca faentina fù fondata, per concessione imperiale e pontificia, da Francesco I Manfredi (il vecchio), ossia prima del 1343 (anno in cui egli morì); ma non essendosi finora trovata alcuna moneta co’l suo nome, resta tuttavia incerto, a parer nostro, se egli osasse fare un atto di vero principe, quale sarebbe stata una cotale coniazione, o se non piuttosto si contentasse di far battere moneta con le insegne e con la leggenda del Comune Faentino. Del tempo, invece, d’ Astorgio I trovasi (nel museo di Vienna e nel museo Butacin di Padova) una monetuzza di rame mischiato con due once d’argento per libbra, e simile ai quattrini bolognesi battuti dal 1390 al 1450; la quale reca, da un lato, nella sommità una crocetta greca, nel campo una lancetta chirurgica aperta e con goccie di sangue attorno (impresa manfrediana di difficile interpretazione), e d’intorno la leggenda “ Astorgius Favent. D.” (Astorgius Faventie Dominus); e dall’altro lato una figura d’uomo mezzo ignudo, con un ginocchio a terra e co’ l capo ornato di splendore ed attorno la leggenda “B. Novolonus” (beato Novellone, cfr. p. 71). Lo Zanetti (monete di Faenza 1777) sostenne che questa moneta è del secondo Astorgio; ma Federigo Argnani (Zecca, monete e medaglie dei Manfredi, Faenza, Conti, 1886) con buone ragioni la rivendica al tempo di Astorgio I.
E poiché qui si è accennato alla impresa manfrediana della lancetta chirurgica, aggiungeremo ora che essa trovasi nel civico museo completata da un gallo ritto su d’un ramoscello di lino (cfr.p.101); aggiungeremo ora che altre imprese manfrediane si trovano, quali quelle del caprone giacente, con fuoco sotto e co’l motto Wan. Hic. Mac. Sopra una fascia che gli attraversa il collo, e quella del caprone che stringe con una zampa una colonna innalzata su di un monte, la quale è scolpita nel camino oggi esistente nella pinacoteca comunale. Quanto allo stemma dei Manfredi, è desso inquartato di bianco ed azzurro, e talvolta vedesi sormontato da gigli (insegna guelfa).
Appena ricuperato il paterno dominio, tentò Astorgio di estenderlo anche a Cesena, quando, a ristorarla dei danni subiti per opera dei Brettoni, la corte romana trattava di cederla in feudo a qualche principe. Mosse egli, adunque, verso quella città con duemila fanti e mille cavalli, ma fu impedito nell’impresa da Sinibaldo Ordelaffi, per il cui stato avea da passare, e dovette (anche perché vedutosi scoperto) ben presto ritirarsi. Questo fatto è assegnato dal Tonduzzi al 1379; ma la data 1378 sembra più giusta, perché già nel seguente anno Cesena era in potere di Galeotto Malatesti.
1379
Restava, però, da risolvere la questione con l’Estense; e narra il Tonduzzi (p. 440) che non volendo Niccolò acconciarsi allo scacco ricevuto, ne seguirono tra lui eil Manfredi “armamenti e fatti d’arme”, in uno de quali Francesco II, fratello d’Astorgio, restò prigioniero in mano al marchese. Vogliono gli Annales Forolivienses che la prigionia di Francesco durasse sei anni; ma in tale affermazione è da riconoscere uno scambio di mesi in anni, se è vero che come dice il Tonduzzi medesimo, Francesco fu liberato nel 1379, quando per mediazione di guido da Polenta, fu fermata la pace tra Niccolò d’Este ed Astorgio.
La predetta pace, conchiusa il 22 maggio, statuiva che Astorgio sborsasse all’Estense la somma di 24000 fiorini d’oro entro quattro anni, restandone mallevadori il comune di Faenza ed alcuni ricchi mercanti fiorentini; di lì a due mesi il Manfredi cederebbe la città ad un ufficiale del marchese, il quale vi eserciterebbe a nome degli Estensi, atti di assoluta giurisdizione; e dopo tre o quattro giorni esso ufficiale la rimetterebbe in mano d’Astorgio, come feudo del marchese di Ferrara; d’allora in poi, per otto anni, nel giorno di s.Pietro, astorgio offrirebbe in dono a Niccolò, come segno di vassallaggio, un bel destriero ricoperto d’una ricca gualdrappa di panno rosso. E così avvenne, sebbene per il primo anno, essendo ormai trascorso il giorno di s.Pietro, il dono fosse fatto da Astorgio il due agosto, come si ha da una notizia recata dall’Azzurrini (Mittarelli, col. 335).
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