Faenza nella Storia _ Cap. 1.3. Faenza nell’età comunale fino al 1218
1.3. Faenza nell’ età comunale fino al 1218
Verso la metà del secolo XII era dunque ormai solidamente constituito in Faenza il governo comunale. I cronisti e gli storici non dicono qual fosse, in quel primissimo periodo del comune faentino, il preciso ordinamento politico; se non che, presentandosi in Italia tale ordinamento un po’ diverso da città a città, è vero, ma pur sempre con caratteri generali uniformi, non ci sarà difficile l’arguire che anche in Faenza i consoli (de’ quali il numero non fu sempre e dappertutto uguale, da che ciascuna città ne eleggeva quanti giudicava tornasser più utili al proprio reggimento) furono amministratori, capi-militari e legislatori di autorità non assoluta, si bene limitata. E difatti in sostanza nulla potevano i consoli fare senz’aver prima consultato certe determinate assemblee cittadine, tra le quali il Consiglio di Credenza, ch’era una specie di concesso minore segreto, e il Parlamento, od Arrengo de’ padri di famiglia aventi diritti politici (ristrettosi più tardi in un Consiglio maggiore, eletto e più spesso sorteggiato dal Parlamento), il quale era sovrano e dovea esser convocato ed interrogato ne’ più rilevanti affari. I consoli si rinnovano, generalmente, di anno in anno.
Continuano, invece, i cronisti e gli storici a narrarci, più che altro, le vicende esteriori, diremo così,della città, dalle quali risulta svolgersi la vita comunale in mezzo a continue lotte ed imprese e saccheggi: chè non soltanto il Comune è in gara con le città rivali circonvicine, in mezzo alle quali tesse una trama politica di astuzie, di alleanze, di contro-leghe, si anche deve difendere i suoi commerci e la sua espansione economica e politica dai signorotti feudali delle vicine campagne, che dall’alto dei loro castelli stanno in agguato continuo e minaccioso. Così nel 1140 s’ intromettono i Faentini in una controversia tra Modena e Bologna, aiutando questa a riprendere a’ Modenesi il castello di Nonantola: ma nel 1142 sono sconfitti insieme co’ loro alleati.
1142
Così parimente, nel 1142, richiesti di aiuto dai nobili di Cesena, assediati in rocca dalla fazione popolare, vi accorrono e disperdono gli assedianti; ma nel tornare a Faenza incontrano Ravennati, Forlivesi e Riminesi uniti a’ lor danni, ed debbano ad una tempesta improvvisa, che impedisce la battaglia, se possono tornarsene sani e salvi in città.
1143-1144
Poi nel 1143 muovono inconsideratamente, e, dicono i cronisti, senza saputa dei consoli Teodorico di Guglielmo, Sacchetto,Bernardino di Caminiza, Guido di Ramberto (il che sembra piuttosto inverosimile) all’assalto di Castel Leone, rocca de’ Forlivesi su ‘l contado faentino, ma sono ributtati; tornano all’assalto nel 1144 insieme con Guido Guerra, detto comunemente il vecchio, figlio del Guido Guerra precedentemente ricordato (che morì, al dir del Tolosano, cap. XXI, nel 1124), e con milizie bolognesi capitanate da Rodolfo di Lamberto dei Geremei: se non che quest’ultimo, nipote di Rodolfo vescovo di Forlì, trattiene all’ultimo momento i suoi dal combattere, onde i Faentini si arrendono ai consigli di Guido, e tolgon l’assedio.
1145
L’anno dopo, più aspra guerra si svolge. Già, infatti, nel gennaio i Faentini avevano respinto i conti di Cunio inoltrantisi nel territorio del Comene, quando i Ravennati, formata una gran lega contro Faenza, con le genti di Verona, Ferrara Argenta, Cervia, Forlì, e persino con armati del Piceno e d’un marchese Corrado (che il Valgimigli II, p. 68, identifica con Corrado Cavalcabò), sotto la guida di Pietro Duca, si gettano su ‘l territorio faentino. I Faentini, ingrossate le milizie cittadine con gli uomini del contado (di val d’ Amone) e con quelli di Cesena, non invano richiesta d’aiuto, si scontrano con gli avversari, il 17 giugno, a s. Lucia delle Spianate: e già eran quasi volti i nostri alla fuga, quando la morte di Pietro Duca rallenta l’ardor dei nemici, mentre i Faentini riprendono animo, si riordinano, tornando all’assalto, e finiscono con lo sconfiggere pienamente il nemico, che lascia si ‘l campo duecento morti e trecento prigioni. Dei nostri, otto solo perirono, e di essi tre assai ragguardevoli: Alberico di Manfredo, Guido suo figlio ed un Bernardino di Caminiza. Dopo di che, infra biennium (dice il Tolosano, cap. XLII) fu conchiusa la pace.
Nè tardano nuove liti ed ostilità. Minacciati dal castello di Cunio, i Faentini ne costringono il conte [1147] a venire a patti, nel 1147; e i patti sono che egli e i suoi discendenti acquistino la cittadinanza faentina, e si obblighino ad abitare nella città, e il castello si presidiato da milizie di Faenza. Ma poiché frattanto quel mal domo signorotto se la intendeva con Ravenna, e tramava dar nelle mani a quest’ultima e il castello e il presidio cittadino, il popolo tumulta, muove furibondo all’assalto di Cunio, e prende la rocca, e la demolisce dalle fondamenta. Buoni rapporti, invece, manteneva la nostra città con Guido Guerra predetto, signore di Modigliana e di molti altri castelli in Toscana. Così nel giugno del ‘47 (e non del ‘46, come vogliono gli storici toscani), nel ‘48, nel ‘49, i Faentini, a detta del Tolosano, efficacemente difesero la rocca di Monte di Croce, che a Guido apparteneva, da’ ripetuti assalti del Comune di Firenze; il quale finalmente nel ‘53 riuscì a prendere e demolire l’inviso e molesto castello, e così mons crucis cruciatus est, scriveva il cronista Sanzanome.
1148
Intanto Imola, sottomessi ai Ravennati, nega l’annuo tributo a Bologna ed a Faenza, nel 1148: queste allora per sei mesi l’assediano, e non riuscendo a prenderla, si vendicano con orribili scorrerie nel territorio circostante; delle quali stanchi finalmente gl’ Imolesi, stanchi anche delle continue molestie delle genti dei due castelli d’Imola e di s. Cassiano, che i Faentini avevano [1150] ricostruiti, assalgono e prendono il 14 ottobre 1150 il primo d’essi castelli, e vi uccidono parecchi cittadini di Faenza, e Guido detto Malabocca conte di Bagnacavallo, e Rainuccio di Gionatello, mentre ad altri strappano barbaramente gli occhi.
Tali sevizie riempiono di furore Faentini e Bolognesi: i quali s’accordano per tendere alla ribelle città una finissima insidia. Le schiere di Bologna avrebbero, dunque, assalita da un de’ lati Imola, di nottetempo; e mentre tutto il popolo imolese vi sarebbe accorso a difesa, i Faentini avrebbero oppugnata la città dall’alto lato, e una delle porte sarebbe stata loro aperta da un traditore.
1151-1152
Ma il disegno fallì, per essersi i Bolognesi troppo a lungo indugiati attorno al castello di Medicina; onde i Faentini (correva l’anno 1151) furono ributtati fino al Santerno, e più oltre ancora sarebbero stati ricacciati se il conte Guido Guerra, che con le sue milizie ausiliari era rimasto al di qua di tal fiume, non fosse accorso in loro aiuto. I due eserciti bolognese e faentino null’altro poterono fare se non ricostruire nel ‘52 il castello d’Imola: nel qual mezzo quanti degl’Imolesi caddero nelle lor mani furono tutti, per rappresaglia, spietatamente scannati; e le teste mozzate di quegl’infelici parte furono collocate alla pubbluca vista su le mura di porta imolese a Faenza, e parte apprese agli alberi lungo la via Emilia, luttuoso e orribile spettacolo alle genti.
1153
Ma sconfitti l’anno dipoi, prima da Bologna, e poi da Bologna e Faenza insieme, gl’Imolesi furono alfine sottoposti a nuovo e più duro dominio, perché la loro città, privata del vallo o fossato di cinta, e di qualunque altro edifizio che importasse difesa, dovette riconoscer di nuovo il doppio dominio delle due odiate nemiche.
1155
Se non era avversa, dunque, la sorte a’ Faentini, in sostanza, nelle loro esterne imprese, erano dessi ripetutamente perseguitati dalla sventura nella città. Già nel 1151 un nuovo spaventoso incendio, suscitatosi nella casa d’un Girardino di Farolfo, avea distrutta novellamente la cattedrale e buona parte degli altri edifizi; ed ora, nel 1155, appiccatosi il fuoco nell’abitazione di un Giovanni di Davizolo, posta presso la piazza, rapidamente divampò e largamente si estese, con gran terrore de’ cittadini. Rinnovatosi, poi, nel 1161, un contale disastro in casa d’un Casalino, presso porta Montanara, e di lì essendosi come al solito propagato a quasi tutta la città, i Faentini, per evitare nell’avvenire cotesta piaga degl’ incendii, condusser maestri a lavorar di tegole onde ricuoprire (sostituendo le spazzole di padule) i tetti delle case. Ma durando ancora per qualche tempo l’uso, in non pochi edifizi, delle coperture in legname, non è da meravigliare se dieci anni appresso un altro fuoco si accese presso la chiesa di s. Bartolomeo, dilatandosi di lì, per un gagliardo vento, fino a porta Ravenna.
Il 7 luglio 1155 (giusta ricavarsi da un documento legale dell’ Archivio capitolare) al vescovo Ramberto, da noi ricordato di sopra, era fatta donazione, a nome dalla città, da Ubaldo Signorelli, potestà, di tutto ciò che dalla contessa Gisla e dal conte Viviano suo marito era stato già donato al Comune nei beni e nelle ragioni che i su detti coniugi avevano su ‘l castello di Guillarino; e da ciò chiaro risulta che, sebbene una carta del 1155, riferita dal Mittarelli (col. 438), ricordi i consoli della città Aureo e Bernardino, pure nel luglio di quello stesso anno era già stata instituita in Faenza la magistratura suprema del potestà. Questa nuova instituzione, preceduta quasi dovunque da un incremento della nobiltà dentro le mura cittadine, dà forma monarchica al reggimento comunale; il potestà non è un semplice giudice, come molti credettero e come diventerà più tardi: è addirittura il capo e il rappresentante del Comune; firma i trattati, comanda l’esercito, convoca e presiede il parlamento; prende, insomma, il posto de’ consoli. I quali, del resto, non spariscono del tutto; chè documenti e cronisti li ricorderanno ancora di quando in quando, essendo questo un periodo di trasformazione, durante il quale la nuova forma di governo, non ancora ben determinata, si alterna con la precedente. Fu, adunque, Faenza tra le prime città d’Italia che al proprio governo deputarono un podestà (Bologna fin dal 1151 avea conferita cotale magistratura al faentino Guido di Ranieri da Sasso, e Imola nel ‘53 era retta dal bolognese Giovanni di Rambertino); né la podestà di Ubaldo Signorelli può aver nulla che fare con l’instituzione dei messi o potestates imperiali, che il Barbarossa mandò dopo la dieta di Roncaglia (1158) a rappresentare l’autorità sua suprema ne’ comuni e ne’ contadi, e che furono tutti teutonici. Dimostra il Valgimigli, invece, che il Signorelli era faentino e di famiglia faentina (II, 87-88), ricordando una carta del 1116 in cui sono nominati un Ubaldo di Seniorello ed un Seniorello di Ugone, ed un’altra carta del 1137 in cui è ricordato Ubaldo del fu Seniorello.
1158-1159
Ma nelle città le quali seguirono le parti del Barbarossa (e Faenza fu tra esse, tanto che il vescovo Ramberto intervenne nel 1158 alla dieta di Roncaglia, conseguendovi dall’imperatore un diploma a favore della chiesa faentina) potè forse il potestà comunale rappresentare anche fino ad un certo punto i diritti del monarca germanico, o almeno esser nominato coll’assenzo de’ messi imperiali; e poiché Ubaldo trovasi ancor potestà nel 1159, suppone il Valgimigli (II, 93) che tale rafferma fosse dovuta probabilmente ai ministri del Barbarossa, attestando anzi il Tolosano (cap. LIII) che il Signorelli guidò più volte le milizie faentine in servigio dell’imperatore.
1160-1167
Quando, dopo la morte di papa Adriano IV, contro il legittimo successore di lui il Barbarossa sostenne l’antipapa Vittore IV, il vescovo di Faenza Ramberto seguì la parte scismatica ed imperiale, intervenendo al conciliabolo di Pavia, nel quale Alessandro III fu dichiarato illegittimo e scismatico. Ed a torto lo Strocchi, cerca scusare Ramberto, dicendolo costretto a far ciò dalla violenza imperiale, giacché di tali violenze non si rinviene il menomo cenno. Che anzi, a dimostrar sempre più che Ramberto seguiva realmente la parte imperiale, sta un diploma con cui Federico imperatore radificava in Lodi alla chiesa ravennate i beni della stessa, il 16 aprile 1160, diploma in cui Ramberto è annoverato fra i testimoni. E quando nel febbraio 1167 giunsero a Faenza, quale nunzi inperiali, Alessandro vescovo di Liegi e l’abate di Stablò, per ricevere il giuramento di fedeltà dal clero e dai laici, Ramberto e l’abate di s. Maria foris portam furono i soli che a cotal giuramento s’ indussero (tunc non iuravit noxi Rambertus episcopus faventinus, et abbas sancte Marie foris portam cum monachis suis, dice il Tolosano, cap. LVI).
All’entrare della primavera di quello stesso anno, poi (e non nel ‘65, come vorrebbe il Tolosano nel cap. LV, dappoichè solo nel ‘66 l’imperatore discese in Italia con la consorte Beatrice, e nel ‘67, uscito di Lodi, se ne venne in Romagna), il Barbarossa, con un poderoso esercito e con nobile comitiva di vescovi e di principi, fu in Faenza, onorevolmente ospitato nella casa de’ fratelli Guido ed Enrico Manfredi, la quale era all’angolo dell’odierna via Torricelli con la via Manfredi. In tale solennissima occasione giostrarono i Faentini in un gran tornèo, del quale molto l’imperatore si dilettò; il che non tolse, però, ch’egli imponesse alla città esorbitanti gravezze.
1168
Nel 1168 si riprendono le piccole intricate guerre co’ castelli e comuni vicini. Il 25 sett., infatti, i Faentini espugnano la rocca di Ceparano, che il conte Guido Guerra avea munita ai lor danni. Frattanto Imola, che ancora non s’era rassegnata alla sua sorte, tentava riprendere i castelli d’Imola e di s. Cassiano; ma era di nuovo vinta dai Faentini e Bolognesi insieme, e sottoposta a dure leggi, dettate da Prendiparte e Arnuisio, consoli di Bologna, e da Benno, console di Faenza, nella pubblica concione del 16 giugno, in cui Bologna e Faenza rinnovarono la loro alleanza. D’altro canto i Forlivesi, forti dell’aiuto de’ Ravennati, minacciano il territorio faentino dal loro Castel Leone: e i Faentini, rafforzati dai conti Guido Guerra, Malavicino di Bagnacavallo, Cavalcaconte di Montefeltro, e da’ conti di Cunio, Castrocaro etc., assediano l’inviso castello, e già stanno per prenderlo, quando, avvicinandosi le milizie forlivesi e ravennati, i consoli, per timore d’un tradimento, ordinano una ritirata precipitosa. Il dì seguente tornano in campo; ma non trovando a Castel Leone il nemico, parte dell’esercito, sotto il conte Malavicino, si getta su ‘l ravennate, incendiando il castello di Rafanara; e parte, sotto Guido Guerra, s’avvia a Castrocaro, dove attacca quei di Ravenna colà attendati, i quali respingono bravamente gli assalitori. Quando in Faenza giunge la notizia del nuovo insuccesso, scoppia un tumulto, convocasi il parlamento, e quivi i consoli (specie un Bernardo Sapiente) tentano scolparsi; ma l’assemblea inveisce con armi e pietre contro di loro, costringendoli a rifugiarsi nella cattedrale, dove il console Teodorico di Guglielmo è gravemente ferito presso un altare.
1169-1170
Riordinate indi a pochi giorni le milizie cittadine (ascendenti a 500 cavalieri più migliaia di fanti), riprendono i Faentini nel febbraio 1169 l’offensiva, espugnando nel forlivese il castello di Laureta, e menandone prigioni un Geremia da Polenta ed un Ubaldo conte di Petrignano. Ravennati e Forlivesi si volgono allora agl’ inganni; e nel 1170 i capitani di Castel Leone, indettati da loro, fingono di lasciarsi corrompere ed aprono le porte della rocca; ma quando dodici de’ principali faentini vi son penetrati, lascian piombare dall’alto su essi una gran botte piena di sassi, uccidendone due, e subitamente chiudendo l’entrata agli altri, i quali sfogano il loro sdegno con saccheggio delle terre circostanti. Nè cessan gli agguati del nemico. Il conte Ubaldo di Petrignano (prigioniero, come sappiamo, de’ Faentini), istrutto da Forlivesi, promette in cambio della propria libertà la cessione di Castel Latino, su cui avea ragioni di signoria; ma una volta libero, organizza invece una lega tra Forlì, Cesena, Bertinoro, Forlimpopoli, Cervia, Castel Leone e Galeata; e un bel giorno del maggio 1170 le milizie faentine, uscite per andare a prender possesso, secondo i patti, di Castel Latino (ed erano capitanate da’ consoli Giuliano, Ugiccione degli Atti, Bernardino di Caminiza, Marzolo, Aureo, Pietro Pozzetto, Rustico di Berto, Faventio di Fantinello), si trovano invece a fronte il poderoso esercito di quella lega. Se non che, venuti a battaglia, in tre ore sbaragliano gli avversari, incalzandoli fin sotto le mura di Forlì e prendendo illustri prigionieri, tra cui Pietro Traversari (o Traversara) il giovine di Ravenna, Ugo di Berardengo di Forlì, Enrico Mainardi di Bertinoro, Geremia da Polenta etc.
1171
La guerra è ripresa nel febbraio del seguente anno, quando i Faentini, insieme con Guido Guerra, assalgono Forlì, dando alle fiamme il borgo di Schiavonia. I Ravennati, scorgendosi in tale frangente inetti a durare nella difesa di Forlì e di Castel Leone, tentano di distaccare dall’alleanza faentina il conte Guido Guerra. Respinti sdegnosamente da lui, corrompono invece Malavicino, conte di Bagnacavallo, e i Bolognesi; i quali ultimi, avviatisi con Malavicino alla volta di Faenza, e pervenuti al ponte di s. Procolo, di lì s’avanzarono devastando. Ma il popolo faentino, fatto accordo di ciò dai grossi e neri nugoli di fumo delle incendiate campagne e ville, fece una vigorosa sortita e ricacciò il nemico al fiume Santerno. Tornati nel maggio i Bolognesi all’assalto, e per la prima volta col loro carroccio, si attendarono di nuovo al ponte di s. Procolo, mentre i lor collegati (Ravenna, Forlì, Rimini, Cesena, Cervia, Forlimpopoli, Bertinoro) si ponevano a campo presso la chiesa di s. Andrea in Panigale. Allora i Faentini, con gli aiuti di Guido Guerra e sotto la guida del potestà Guido di Ramberto del Filgirardi, escono incontro al nemico; se non che, giunto co ‘l soccorso di milizie ferraresi un Guglielmo degli Adelardi, questi tanto seppe fare indusse le due parti alla pace, ricordanza della quale fu edificata in quel luogo la chiesa di s. Maria della Pace, tuttora esistente. Ma a tale notizia il bellicoso popolo faentino tumultuò contro il podestà!
1173
Ricorda poi il Tolosano, all’anno 1173, che i Faentini, memori dell’antica amicizia con il conte Guido Guerra, recarono soccorsi al medesimo contro il conte di Castrocaro; e poiché dai documenti si apprende che la morte di Guido il vecchio va collocata tra il ‘68 e il ‘76, argomenta il Valgimigli (II, 141) essere non improbabile che nel Guido Guerra del ‘73 sia da riconoscere il Guido iuniore. Certo i Faentini aiutarono quest’ultimo, quando concorsero nel ‘78 a domare i Modiglianesi ribelli agli ordini di lui che, non si sa per quale ragione, ne volle distrutto il castello: al che i sudditi si acconciarono, purché fosse loro concesso di abitare vicino alla piazza di s. Donato, o elegger domicilio in Faenza.
Nella primavera del ‘73 il cancelliere dell’Impero, arcivescovo Cristiano do Magonza, dovette, come tutti sanno, toglier l’assedio da Ancona pe ‘l sopraggiungere di forze lombarde e romagnole in aiuto dell’eroica città; nella quale occasione i Faentini, richiesti dall’alleanza contro il Barbarossa con la larga profferta di lire 3000, rifiutarono, e vollero conservarsi fedeli all’Impero.
1175-1177
Due anni dipoi, adunque, Cristiano, con aiuti ravennati, faentini, imolesi, etc. assediava il castello di s. Cassiano, guardato da milizie bolognesi; ma dopo 17 giorni, avvicinandosi un esercito di soccorso, i Bolognesi fecero una sortita, e respingendo gl’imperiali si posero in salvo, mentre il castello veniva dagl’Imolesi dato alle fiamme. E in quel medesimo anno 1175, quasi a riprova dhe Faenza fosse ligia alla fazione imperiale, troviamo che in essa dimorò per alcuni mesi l’antipapa [1177] Callisto III. Che più? Nella tregua di Venezia, firmatasi, dopo la battaglia di Legnano, nel 1177, Faenza è, insieme con altre di Romagna, tra le città aderenti all’imperatore, le quali il primo d’agosto prestando giuramento con lui.
1178-1179
Eppure la fedeltà di Faenza all’Impero dovea ben presto cessare. Nel marzo del 1178 il Comune faentino, rafforzatosi con la sottomissione degli uomini del castello di Baccagnano, per domare una buona volta la sempre ribelle Imola, fermava un accordo con Bologna, mediante il quale Faenza entrava nella lega lombarda e deliberava ricostruire s. Cassiano. Imola, a prevenir gli alleati, invade nel giugno del ‘79 con grossa squadra il territorio faentino; Guido Guerra iuniore è lesto per approfittarne per assalir di nuovo i suoi terrazzani di Modigliana, ma questi ricorrono, secondo i patti, a Faenza, e si rifugiano parte nella città, parte né luoghi circonvicini: il che fu causa di ostilità tra Faenza e il Guerra per ben tre anni. Intanto l’arcivescovo Cristiano, cancelliere dell’Impero, muove all’assedio di Castrocaro; e poiché i faentini accorrono alla difesa di quel castello, gl’imperiali, levato il campo, assaltano senz’altro Faenza, ai 24 luglio, dalla parte del Borgo d’ Urbecco: se non che, una improvvisa sortita delle schiere cittadine li respinge fino alla Cosina, tra Faenza e Forlì, dove la zuffa divien più micidiale, con molta strage d’ambe le parti.
1181
Liberatosi da tali brighe, il Comune faentino,insieme con Bologna, ed aiutato anche da Malavicino II, conte di Bagnacavallo, torna all’assalto d’Imola; e dopo una guerra varia e minuta, gl’Imolesi, stretti da durissimo assedio, chiedono finalmente ed ottengono pace nel 1181, a patto di ritornar sotto il dominio di Bologna e Faenza, di pagar l’annuo consueto tributo e un’indennità di guerra, di restringere il circuito della città e restituire i prigionieri.
Ma le armi non posano. Insorta contesta in Ravenna fra Pietro Traversari e un Ubertino di Tebaldo, i Faentini muovono in soccorso di quest’ultimo, ed entrati nel ravennate, abbattono i castelli di Cortina e di s. Pietro. Approfittano di ciò i Bagnacavallesi per vessare or l’una or l’altra parte contendente: e allora Ravennati e Faentini, fatta la pace, muovono insieme contro Bagnacavallo, e lo distruggono, costringendone gli abitanti a stabilirsi nei contadi di Ravenna e Faenza. Ottengon poi i Bagnacavallesi di riedificare il castello, ma a patto di pagar tributo annuo a Faenza.
1183
Così il Comune fortificavasi e imponeva a’ vicini la sua autorità. Della quale è pur segno l’essere esso stato compreso tra i confederati della lega lombarda nella famosa pace di Costanza del 1183, firmatsi tra la lega e il Barbarossa. Secondo i patti di tal pace, Bernardo giudice ed Ugolino d’Azzo prestarono per Faenza giuramento di fedeltà all’imperatore; e Bernardo, anzi, ricevette l’investitura del consolato.
In quello stesso anno, dovendo Faenza pagare il fissato tributo all’Impero, e i montanari rifiutandosi di sottomettersi ad un balzello per ciò imposto, avvenne che il Comune inviò contro i ribelli alcune milizie cittadine; ma queste, sorprese in un augusto passo tra rupi e burroni, detto Montebello, furono masacrate.
1184
La sconfitta generò un tumulto nella città contro i consoli, i quali furono cacciati, e sostituiti nel 1184 con il potestà Guglielmo Burro da Milano: il che dimostra essere anche in Faenza di già in vigore, a quel tempo, l’uso del podestà forestiero. Un’altra sommossa, probabilmente collegata con questa, scoppiò il 9 febbraio: nel qual giorno i popolani, per provvedere di vettovaglie il nuovo potestà (così dice il Tolosano, cap. XCIX), si levarono a romore, e depredavano le camere e i granai della canonica annessa alla cattedrale, dei monasteri e degli ospedali. Era vescovo un Giovanni II, di cui s’ha la prima memoria in un atto pubblico del 13 novembre 1177 (nel quale sono ricordati i consoli Farolfo di Gerardino e Guido di Sasso), e che il 5 marzo 1179 era intervenuto ad un concilio lateranense convocato da papa Alessandro III per riparare ai danni dello scisma; ed il vescovo Giovanni fulminò i tumultuanti con l’interdetto. La scomunica invelenì sempre più la plebe, che continuò il sacco per ben otto giorni, assalendo persino i sacerdoti; ma tornata finalmente alla ragione, chiese ed ottenne il perdono, promettendo che mai più si sarebbe data alle rapine, “ se non spintarvi da timor di morte o da disagio di viveri “.
1185
Il potestà Guglielmo Burro, confermato in carica pe ‘l 1185, seppe d’altro canto racchetare i montanari, inducendoli al pagamento della invisa tassa; ma tutti questi rivolgimenti ebbero strascichi e conseguenze ben gravi.
Il moto, infatti, era stato , probabilmente, economico e politico insieme: il Tolosano afferma che non solo contro a’ preti, sì anche contro i nobili si era levato il popolo; il Rossi (Hist. Ravennat.) e il Muratori (Annali d’It.) ravvisano in questi fatti di Faenza una lotta tra nobili (che, a difesa dei loro feudi e castelli, parteggiavano per l’imperatore) e il popolo; comunque, il fatto è che i nobili, o una fazione di essi, capitanati dal conte Giuliano di Donigalia e da Lamberto di Rodolfo, ricorsero al cancelliere di Federico Barbarossa, e supremo duce imperiale in Italia, Bertoldo conte di Königsberg. E questi, adunato un forte esercito, con le milizie di Toscana, Ravenna, Forlì, Rimini, Cesena, Bertinoro, e con quelle dei conti Guido Guerra, di Castrocaro, Bagnacavllo, Cunio etc.., mosse minaccioso contro Faenza, ponendosi a campo a s. Lucia delle Spianate. Alle proposte di pace de’ Faentini, Bertoldo rispose imponendo alla città di uscire dalla lega lombarda; onde sdegnati i cittadini mossero con tutte le loro forze dal Borgo d’Urbecco per assalire il campo imperiale; ma raffrenati da’ consoli, tornaron poi indietro, e tennero parlamento nel letto del fiume Amone o Lamone, allora asciutto, dove il console Aureo li arringò consigliandoli ad attendere la venuta dell’inimico. E il 20 giugno l’oste nemica apparve, divisa in tre corpi, per dare un triplice contemporaneo assalto alla città. Allora l’esercito cittadino, diviso anch’esso in tre parti, esce alla difesa; e s’appicca una lunga, fierissima battaglia che finisce con la sconfitta completa degli assalitori, dovuta specialmente all’impeto d’una compagnia di duecento cavalieri faentini. Caddero degli avversari un Ottolino Maresciallo e un Guelfolino da Rimini, un Rainuccio e un Marino dei Righi cesenati, e molti altri: in tutto trecento morti e cinquecento prigionieri. Dopo una si splendita vittoria, le case de’ nobili Giuliano e Lamberto, ch’erano stati causa della guerra, furono atterrate; e di lì a poco fu concluso un accorto tra Bertoldo e Faenza, essendo consoli Zambrasio, Sebastiano, Aureo, Ranieri, Sapiente e Rustico di Berto.
1186
E nel settembre del 1186 in Lodi era firmata, alla presenza dell’imperotore e dei rettori di Lombardia, la pace generale tra Faenza e la lega de’ suoi nemici.
1191-1192
Nuovi fastidi ebbero ora i Faentini dalla slealtà di Guido Guerra iuniore, così differente dal padre e dall’avo, che lunga ed interrotta amicizia avean professata per la città nostra. Assalì egli adunque al Comune il castello di Baccagnano; di rimando Faenza, nel 1191, assalì a lui la rocca di Monte della Pietra: e poiché, nonostante le intavolate trattative d’un accordo, Guido secretamente se la intendeva con quei di Baccagnano, i Faentini, sotto il lor potestà Antonio da Piacenza, atterrarono il detto castello ed espugnarono eziandio (1192, giugno) Monte della Pietra; onde il Guerra chiese di nuovo la pace, che fu firmata il 15 decembre 1193 nell’episcopato faentino. Il documento che ciò attesta non dice affatto che fu presente a tal pace il novello vescovo Bernardo (il precedente vescovo Giovanni, partito nel 1189 con circa duecento Faentini alla volta della Terra Santa, per prender parte alla terza crociata, era morto, o durante il viaggio o in qualche fatto d’arme), come vorrebbero il Tonduzzi, il Mittarelli , il Valgimigli; onde bisogna discendere al 1195 (3 gennaio) prima di trovare nei documenti ricordo di Bernardo stesso.
1195-1196
Narra inoltre il Tolosano (cap. CXIII) che l’imperatore Enrico VI, figlio del Barbarossa, dopo avere nel 1194 soggiogate la Sicilia e la Puglia, mentre se ne tornava in Germania passò nel 1195 per Faenza, onorevolmente accolto; e un privilegio da lui rilasciato, ai 20 maggio, al monastero dei ss. Ippolito e Lorenzo, ricorda il vescovo Bernardo fra i testimoni a tale atto: il qual Bernardo accompagnò poscia il monarca almeno fino a Piacenza. Nel ‘98, poi, Bernardo, ch’era giurista insigne e che aveva insegnato il diritto canonico nello Studio bolognese, fu eletto vescovo di Pavia, sua patria.
Faenza, intanto, libera in quegli anni da brighe guerresche, mirava a consolidarsi con opportuni accordi: così nel ‘94 avea rinnovata l’alleanza con Bologna; nel ‘95 (5 genn.), nell’occasione d’una pace tra il conte Guido Guerra e un Giovanni Mariscotti faentino, avvenuta nel palazzo episcopale, aveva fatto un novello trattato col Guerra medesimo; infine a dì 30 luglio del ‘96, avea preso parte alla rinnovata lega lombarda di Borgo s. Donnino, ove per essa avea prestato giuramento Ugo da [1198] Sasso.
1198
Volgeva, adunque, ora l’anno 1198, quando il novello pontefice Innocenzo III, sottratta al dominio imperiale la marca d’Ancona, tentava ritogliere all’Impero anche la Romagna, inviandovi il legato pontificio Carsidonio, a ricevere l’obbedienza delle città. Ravenna e Faenza si sottomisero; Forlì e Cesena, ribelli, furono, colle armi delle città fedeli, ridotte all’obbedienza. Ma la benignità del rinnovato dominio papale lasciando alle città una maggiore autonomia, avvenne che ben presto ricominciarono le gare e le lotte.
1199
Così nel 1199 i Faentini edificano sul confine forlivese il castello della Cosina; e nel 1201, guidati dal potestà Mario de’ Carbonesi, sconfiggono i Forlivesi alla villa di Frattaria, e aiutati da’ Bolognesi, prendono Castel Leone. Se non che, contro il parere dei loro alleati, sconsigliatamente lo distruggono: onde il podestà de’ Bolognesi ne muove aspro lamento, né si placa se non quando i Faentini, datigli alcuni ostaggi, giurano sottometter sé stessi, e la loro questione con Forlì, al suo arbitrato.
1202
Nella primavera del 1202, ecco i Faentini di nuovo nel territorio ravennate e nel forlivese, ove, sebbene sconsigliati dal loro potestà e duce Guido de’ Tantidenari, si azzuffano coi nemici ed hanno la peggio. Se ne vendicano atterrando Castel Latino; ma intanto il podestà bolognese, valendosi del concessogli arbitrio, sentenzia dovere i Faentini demolire il loro castello, testè murato, della Cosina, e pagare 1000 lire d’indennità al vescovo di Forlì, cui apparteneva Castel Leone: il che essi fanno, avuto riguardo agli ostaggi che quel potestà aveva in mano.
1204
Durante il vescovado di Teodorico di Frascone (successore del precedente Bernardo), e precisamente nel 1204, ebbe luogo una lite tra Alberto, arcivescovo di Ravenna, e il Comune di Faenza, circa la giurisdizione e il dominio sui castelli di Lugo, s. Potito etc. che papa Innocenzo III nel 1198 avea tolti al conte di Cunio, Ranieri, e restituiti alla chiesa ravennate, ma che erano, invece, dai Faentini stati occupati. E Grimerio, vescovo di Piacenza, arbitro della causa, emise sentenza giusta la quale Faenza ebbe a restituire dapprima Lugo, e poi s. Ipppolito ed Oriolo.
1205-1208
Ma contro le rocche vicine, che evidentemente danneggiavano o impacciavano l’azione politica ed economica del Comune, muovono i Faentini più volte ancora in questi anni: nel 1205 assaltano Bagnacavallo, obbligandone il conte Malavicino a dichiararsi cittadino di Faenza ed a prendere stanza nella città; nel 1207, duce il potestà Gherardo di Rolandino, recano aiuti al conte di Linare che era soccorso, invece, da Ravennati, Forlivesi e Bertinoresi; nel 1208 menano guasti a’ danni di Pietro Pagani, signore di Sussinana, e gli demoliscono il castello di Castilionco. E poiché era fermo che ogni dieci anni dovesse rinfrescarsi l’alleanza co’ Bolognesi, rinnovato fin dal 1204 con essi l’accordo, dovette Faenza, a richiesta degli alleati, inviare milizie nel 1208 a difesa del castello di Suzzara, de’ Reggiani, assalito dai Mantovani. Nel quale anno avveniva anche una pace e concordia con Forlì, segnata per opera, soprattutto, del potestà forlivese Ranieri di Gherardino.
1209
Intanto in Germania, per la morte del competitore Filippo di Svevia, era stato riconosciuto re Ottone [1209] Iv di Brunswick; e questi, nel 1209, mentre recavasi a Roma a ricevere la corona imperiale, passò da presso a Faenza, ed al ponte di s. Procolo ricevette gli omaggi della città, accompagnandolo anzi dieci cospicui cittadini fino a Rimini; ripassò poi nel febbraio del febbraio del seguente anno, onorevolmente accolto dal Comune, il quale gli fornì, in segno di omaggio, otto uomini d’arme, inviati dipoi con altre milizie italiane, sotto la condotta del marchese Azzo d’Este, contro Federico II di Svevia, figlio d’Enrico VI e re di Sicilia e Puglia, l quale Ottone avea rotto guerra.
Ma la venuta dell’imperatore avea incoraggiato alla ribellione i signorotti feudali, che dicevansi ghibellini, contro il giogo comunale delle città dominanti. Il conte Malavicno, ad esempio, uscito di Faenza, riedificò il suo castello di Bagnacavallo; e questo fatto eccitò i montanari di Val d’Amone di rifiutarsi di pagare l’annuo tributo al Comune: onde i Faentini, per tenerli a freno, munirono e presidiarono il castello di Rontana.
1211
Dal 1211 in poi ricominciano le eterne lotte col Comune imolese. Il castello d’Imola, minacciato di nuovo dagl’Imolesi, giura fedeltà al podestà di Bologna, Guglielmo da Pusterla, ed a quello di Faenza, Alberto da Mandello; ed è notevole il fatto che, insieme con quest’ultimo, siano a ricevere il giuramento Guido da Marzano, Albertino di Uguccione, Arnaldo Camerino, Federico d’ Isnardo e Senzanome, savi o consiglieri che dir si voglia, detti sapientes de credentia; i quali forse sono, come nel Comune di Firenze, una reliquia degli antichi consoli che, per qualche tempo, persistono ancora sotto forma transitoria (durante la quale il potestà è il loro capo), e fanno parte del così detto Consiglio di Credenza.
1213-1216
Ma la protezione de’ due forti Comuni non vale a stornare dall’invisa rocca le minacce degl’Imolesi; onde questi ultimi sono di nuovo costretti con le armi a venire a patti, giurati il 27 aprile del 1213, dinnanzi ai messi di Faenza e Bologna. Sdegnosamente mordendo il freno, Imola procura allora una lega tra Ravenna, Forlì, Cesena, Bertinoro, Bagnacavallo, che tutti obbligavansi ad una specie di blocco commerciale contro Faenza; lega che disciogliersi soltanto dopo reiterate minaccie de’ Bolognesi (1214).
Così la città nostra si andava destreggiando tra le insidie de’ nemici, nel tempo istesso che continuava con ogni sua possa a sottomettere i castelli feudali circostanti: Donigalia, cedutole dal conte Alberico per lire duemila; Casola e Montefortino, ridotti al pagamento di annuali tributi; Bagncavallo, di nuovo ricevuto in obbedienza; Gattara, di cui due torri furono spianate, a fiaccare il prepotente orgoglio di Amadore d’Ugolino di Teodorico (1216).
1217
E’ facile, adunque, immaginare quanto cotali successi tornassero sgraditi alle vicine città, che rivaleggiavano con Faenza, e specie a Forlì; la quale, dimentica della concordia pattuita alcuni anni prima, e profittando della lontananza delle milizie faentine, che erano ai servigi di Bologna contro Pistoia, s’indusse nel 1217 al diabolico consiglio di deviar le acque del Montone, allagando così, con danni rilevantissimi, le finitime campagne faentine; e di rimando Faenza, l’anno dopo, se ne vendicò facendo scorrerie terribili nel forlivese, e riedificando su ‘l confine il castello della Cosina, che si disse di s. Pietro, finché non si venne ad una tregua di 14 mesi, determinata dal potestà di Bologna Albrighetto Pandimiglio, nel cui arbitrio era stata rimessa la controversia.
1218
Ed eccoci al 1218, sotto il quale anno il Tolosano (cap. CLIII) discorre, in modo piuttosto oscuro, d’una certa comunanza di gente d’arme (communancia armaturarum) istituita da Talamacio (o Talamazzo) da Cremona, potestà di Faenza, mentre si trovava nel mese di febbraio alla riedificazione del predetto castello di s. Pietro (da non confondersi con il Castel s. Pietro di pertinenza de’ Bolognesi); ed aggiungere il cronista che il potestà fece di nascosto prestar giuramento a tutti di conservare in buono e tranquillo stato la città, e volle che gli uffici del Comune fossero divisi a sorte coi magnati o grandi.
Queste parole, sulle quali (pare impossibile!) nessuno storico di Faenza si fermò con la dovuta attenzione, alludono probabilmente ad una vera e propria rivoluzione negli ordinamenti del Comune faentino e costituiscono, in difetto di altri documenti, una testimonianza di eccezionale valore. La communancia armaturarum potrebbe, infatti, essere una di quelle compagnie d’armi delle quali è frequente l’uso nella vita molteplice e varia ed inquieta de’ nostri Comuni, costituite allo scopo di assistenza e difesa reciproca tra i cittadini d’una stessa classe; né è difficile pensare che si tratti qui d’un passo innanzi fatto dalla democrazia borghese, la quale avrebbe adunque incominciato a partecipare al governo, dividendo gli uffici coi grandi o nobili. Dalle parole, poi, di colore anche più oscuro, che il Tolosano fa seguire, aggiungendo che, mentre tutti si attendevano da tale comunanza di gente d’arme la fine dell’agitazione, essa non volle sentire consiglio alcuno, e rimase nell’incredulità sua, onde le ne venne grande fattura, non si riesce a comprendere bene se il tentativo di riforma avesse o no completa attuazione. Comunque, ove questo nostro modo d’interpretare il capitolo CLIII del Tolosano non si dilunghi dal vero, il 2018 sarebbe una data importantissima, un vero capo saldo, anzi, nella storia del comune di Faenza.
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