Giovanna Bosi Maramotti
La bicicletta nella letteratura
Note in margine
Nell’ormai lontano 1987, la presentazione a Casola del volume Viaggio in bicicletta (1), pubblicato dall’editore Boni, offrì l’occasione di riportare l’attenzione sugli scritti di Oriani che hanno il loro centro sul più domestico e semplice veicolo che l’uomo abbia inventato. Si intrecciò allora tra i due presentatori – sui quali incombeva gigantesca, massiccia, pur nella sua essenzialità strutturale, la bicicletta dello scrittore – un dialogo che, in parte, coinvolgeva anche il pubblico. In verità, il nostro era un dialogo che si scindeva in due monologhi, ora intrecciati ora divaricantisi, secondo un disegno prestabilito (ma continuamente scompigliato) che affidava all’uno la trattazione più precisa, più tecnicamente e storicamente esatta; all’altra, una rapida scorreria tra la cosidetta letteratura della bicicletta. Nella divisione dei ruoli era, ed è leggibile la radicata convinzione della scarsa scientificità femminile, e la scontata predilezione delle donne per il romanzo, la poesia, il libro di memorie. La provocazione, pur in tempi di femminismo avanzato, fu accettata, ma un netto discrimine tra i due ruoli era difficile da rispettare. Le invasioni di campo, specie da parte maschile, ci furono, e ci saranno anche ora, in queste pagine del 4° Quaderno del Cardello. Una attenuante si può accettare, ed è data dalle conoscenze storiche e letterarie, oltre che dall’esperienza ciclistica sportiva del direttore della Biblioteca Oriani (seguace in questo dello scrittore casolano). C’è da aggiungere che le letture fatte dall’una e dall’altra parte per l’occasione, nonostante gli sforzi per tenere reciprocamente nascoste le fonti, erano per lo più le stesse. Onestamente devo ammettere che furono più numerose le indicazioni che Ennio Dirani mi veniva via via fornendo di quelle che potevo comunicare io a lui, attento lettore, e, per di più, cultore appassionato, oserei dire accanito, della bicicletta. Come competere con chi sapeva quanti chilometri poteva fare all’ora una bicicletta greve come quella di Oriani, quali vantaggi porta il cambio di rapporti e le innumerevoli altre innovazioni tecniche, ovviamente ignote cento anni addietro?
Allora fu un discorso diretto, volto a trattare l’argomento con un leggero tocco di ironia, con scambio di battute; una conversazione, insomma, senza pretese.
Riprendendo a distanza di tempo il tema e dovendo trasferire in un testo scritto quello che allora fu quasi uno scherzoso gioco, le difficoltà si presentano in tutta la loro asprezza, e l’argomento, toccato e trattato come un divertissement estemporaneo, reclamerebbe un ben diverso approccio.
Fedele al mio iniziale compito, decurtato però di tutta la parte riferita ad Oriani (e non è poco!), che il mio compagno di squadra ha maschilisticamente reclamato per sé, in considerazione del fatto che nel 1989 sulle orme di Oriani ha ripercorso, fin nei minimi particolari, il viaggio descritto nelle pagine di Sul pedale, mi pongo preliminarmente il problema di che cosa si intenda per «scrittori della bicicletta», o di «letteratura della bicicletta», o meglio, della bicicletta nella letteratura.
A mio avviso, l’oggetto in questione si accampa come tema dominante in pochissimi scrittori, in numero infinitamente scarno in confronto al numerosissimo, vario e diversissimo uso del mezzo. Negli altri scrittori comunemente citati e ricordati, la presenza della bicicletta o serve di supporto a qualcos’altro (appunti di viaggio con excursus letterari, storici, geografici), o si inserisce nel quotidiano ritmo di vita narrato, o è divenuta, nella memoria, immagine nostalgica di un momento magico dell’infanzia e dell’adolescenza.
Basta sfogliare il volume Scrittori della bicicletta (2) a cura di Nello Bertellini, per accorgersi che gli autori posti nell’antologia hanno, nella maggior parte, scritto i loro racconti o le loro memorie ricordando, con maggiore o minore rilevanza e intensità, la bicicletta, ma non ne hanno fatto la protagonista assoluta. È la compagna silenziosa dei loro sogni, dei loro desideri, dei loro amori. Altro calore hanno le pagine di Oriani, che pure si permette qualche deviazione: fanno sentire quale profonda, intima gioia (una delle poche) essa ha dato al solitario del Cardello, quale senso di libertà gli offriva il semplice mezzo di locomozione che riusciva a togliere ombre e cupe malinconie ad una solitudine quasi disperata.
Non è sufficiente trovare scritto la parola «bicicletta», per inserire l’autore fra gli scrittori della stessa. Valga come esempio la vaghissima poesia del Pascoli, intitolata proprio La bicicletta, sulla quale ritornerò.
Forse la vera letteratura della bicicletta si trova nel giornalismo sportivo di alta classe, quando ormai non si parla più di passeggiate campestri o in collina, ma di gare, di campioni, di giri d’Italia (o di Francia). Qui troviamo i nomi illustri del giornalismo italiano, da Orio Vergani a Gianni Brera, da Enrico Emanuelli a Giovanni Comisso, Dino Buzzati, Mario Soldati, Alfonso Gatto e a tanti altri. Scrittori autentici, prestati al giornalismo sportivo.
Se mai si volesse seguire la storia della bicicletta nell’arte, mi parrebbe più convincente, e visivamente tradotta in tutta la sua dispiegata forza, quella che emerge, con chiarezza, nei pittori, dall’inizio del secolo ad oggi, dalla Vertigine dinamica di Boccioni o dall’«ingrato, brutale ciclista» di Mario Sironi alla squadrata piena immagine del contadino di Nino Melloni del 1983 o alla solitudine e malinconia della Bicicletta sul mare di Giuseppe Viviani del 1941. Ma non è questo mio compito né sarei in grado di condurlo degnamente a termine.
Ho sfogliato di recente il bel volume di Remo Ceserani, Treni di carta (3), che rintraccia nella letteratura i segni lasciati dall’apparire, espandersi e imporsi della via ferrata, da quella immagine sempre affascinante del treno, divenuto metafora della vita umana. Mi è venuto allora da chiedermi se la bicicletta ha prodotto gli stessi effetti sui costumi, sui modi di vita, sui ritmi di lavoro, sulla percezione dello spazio e del tempo. Non nella stessa misura, senza dubbio, ma in qualche modo, pur nella sua domestica dimensione, essa ha contribuito a liberare l’uomo dal suo pesante, lento passo, a dargli il senso della velocità, del distaccarsi del corpo dall’attrazione della terra; gli ha dato la possibilità di vedersi e sentirsi padrone di un movimento moltiplicato, regolato dalle sole sue forze.
La storia della bicicletta dalla fine del secolo XIX ai giorni nostri segue un percorso parallelo alla stessa nostra storia sociale ed economica, registra i mutamenti di abitudini che vanno al di là del semplice oggetto di desiderio, quale fu la bicicletta per intere generazioni. La letteratura ha assunto la bicicletta nel suo impasto linguistico, nei suoi tessuti narrativi; ha accompagnato, passo a passo, l’ingresso temuto, inquietante nelle strade acciottolate delle nostre città, e la successiva naturale, prevaricante presenza nella vita degli uomini e delle famiglie.
Negli scrittori nati dopo la prima guerra mondiale diventerà una costante, quasi un luogo comune, il ricordo della bicicletta associato al felice compimento degli studi superiori. Ma tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento intitolare uno scritto La Bicicletta o In bicicletta, come fecero rispettivamente Oriani e Guerrini, aveva il valore di una irruzione impropria, trasgressiva nell’ancora paludata prosa del mondo letterario. Poteva, al più, far capolino in una poesia, come nella lirica di Giovanni Pascoli, dal titolo appunto La bicicletta (4); ma anche i più devoti sacerdoti del pedale dovranno compiere un immane sforzo ermeneutico per collocare Pascoli tra i cantori della bicicletta! Attraverso balenii di immagini vaghe, inafferrabili, c’è sempre il mondo misterioso, allusivo, percorso da voci e suoni appena percettibili, proprio del Pascoli. La percezione del reale è affidata a quel «dlin… dlin» del campanello, a quella «piccola squilla» che rompe una tessitura di pensieri indefiniti.
I bellissimi versi: «Mia terra, mia labile strada, / sei tu che trascorri o son io? / Che importa? Ch’io venga o tu vada, / non è che un addio!», oppure: «Ma bello è quest’impeto d’ala, / ma grata è l’ebbrezza del giorno. / Pur dolce è il riposo… Già cala / la notte: io ritorno», sfiorano un’ombrata immagine della bicicletta, sempre solo suggerita da quel dlin dlin del campanello, ma in realtà aprono spazi immensi di pensiero, nei quali realtà e sogno, vita e morte si intrecciano in un universo popolato di fantasmi.
Sempre Pascoli, che, se prestiamo fede alla sorella Mariù, non andava in bicicletta, finisce con l’accogliere questo nuovo oggetto, quasi un alieno, nel suo paesaggio di natura, di animali, di uomini e cose: «Guardi chi passa nella grande estate: / la bicicletta tinnula, il gran carro / tondo di fieno, bimbi, uccelli, il frate / curvo, il ramarro» (5). Non lo si potrà però mai considerare poeta della bicicletta per questi lievi accenni.
Nella poesia italiana (e dicendo poesia non mi riferisco al verseggiare facile di matrice artigianale), la bicicletta si affaccia in fugaci apparizioni, a sottolineare uno stato di felicità, di giovinezza, di grazia. Così essa balena, rossa, lucente, nella giovinetta di Gozzano: «rapidamente in vista apparve una ciclista a sommo del pendio», che affida al poeta la bicicletta per accompagnarsi a piedi con la signora, amica della mamma (6). «Condussi nell’ascesa / la bicicletta accesa d’un gran mazzo di rose». La stupenda immagine di quella «bicicletta accesa» resta negli occhi e nella memoria del lettore, ma non costituisce il motivo dominante della poesia. È quell’adolescente «forte bella vivace bruna / e balda nel solino dritto, nella cravatta, / la gran chioma disfatta nel tocco da fantino», che insinua in Gozzano una sottile malinconia, un amaro rimpianto di beni mai goduti e che suscita anche un impietoso confronto tra la fanciulla e la signora ormai matura della cui «amicizia particolare» sente il peso: «da troppo tempo bella, non più bella tra poco, / colei che vide al gioco la piccola Graziella». La bicicletta ricompare nell’addio, rapido quanto le ruote agilmente mosse: «Dalle mie mani, in fretta, / tolse la bicicletta. E non mi disse grazie. / Non mi parlò. D’un balzo sali, prese l’avvio; / la macchina il fruscio ebbe d’un piede scalzo, / d’un batter d’ali ignote, come seguita a lato / da un non so che d’alato volgente con le rote».
Appassionato della bicicletta e delle lunghe pedalate nella vasta pianura del Ferrarese, Corrado Govoni (7) associa alla bicicletta il libero andare per l’amata campagna o il felice incontro con l’amore: «Tu pedalavi vaporosa avanti, / ed io a volo dietro il tuo cappello, / come in un delizioso carosello / mosso da Dio sol per noi amanti. / Sull’erba della darsena intrecciammo / le nostre impolverate biciclette». O anche: «Una sera, andando in bicicletta lungo le vie di polvere e di fetore della canepa cotta…». Ma occorre sfogliare tutto il volume di Poesie (da lui stesso curato nel 1918), così denso dei colori, degli odori, delle malinconie del crepuscolare, per trovare questi due pallidi ricordi di bicicletta.
Porre Dino Campana in una ipotetica antologia della bicicletta è pure possibile (ed è stato fatto, perché tutto è possibile ai sacerdoti di un culto), ma significa usare violenza alla realtà dolente di Campana, l’allucinato viandante che trascinava a piedi per le strade e pei viottoli delle colline tosco-emiliane la sua disperata solitudine. Nelle sue liriche, piene di cancellature, di sostituzioni, di mutamenti, compare l’immagine del corridore ciclista, che affascina con la sua velocità, ma è un attimo: «Dall’alto giù per la china ripida / o corridore tu voli in ritmo / infaticabile. Bronzeo il tuo corpo dal turbine / tu vieni nocchiero del cuore insaziato…» (8), ripreso in Traguardo, dedicato a F.T. Marinetti: «Dall’alta ripida china / movente precipite turbine / vivente nocchiero / come grido del turbine».
Giorgio Caproni si trasferisce negli anni della madre giovinetta e nel ritmo dei versi scherza sui pudori d’allora: «Per una bicicletta azzurra, / Livorno come sussurra! / Come s’unisce al brusio / dei raggi, il mormorio! / Annina sbucata all’angolo / ha alimentato lo scandalo. / Ma quando mai s’era vista, / in giro, una ciclista?» (9). Ma nella poesia Le biciclette, dedicata all’amico Libero Bigiaretti, il ricordo dell’amicizia corre quasi sul filo di ruote veloci, sul suono di leggero metallo: «La terra come dolcemente geme / ancora, se fra l’erba un delicato / suono di biciclette umide preme / quasi un’arpa il mattino…», e «E ahi rinnovate biciclette all’alba! / Ahi fughe con le ali! ahi la nutrita / spinta di giovinezza nella calda / promessa, che sull’erba illimpidita / di un sole ancora tenero ricopre / nuovamente la terra.»
Nell’ebbrezza del suo notissimo viaggio in bicicletta, Oriani si chiese: «Come si chiamerà dunque il poeta italiano che fra non molto scriverà l’ode alla bicicletta?» Con buona pace della sua ombra crucciata, dobbiamo confessare che per trovare i cantori della bicicletta bisogna scendere a Muse più modeste, a meno che non si ricorra ad un raffinato umanista, il bagnacavallese Luigi Graziani (10). Coi due poemetti, Bicyclula, e In re Ciclistica Satan, che meritarono l’ambito premio di Amsterdam, rispettivamente nel 1900 e nel 1902, Graziani conferì alla bicicletta la gloria di essere cantata in lingua latina, le dette cioè dignità di tema classico. Bicyclula si apre con una nota di modestia: non canterà, il poeta, la guerra, né il coraggio degli esploratori, né l’ardire dei novelli Icari, «poeti di più ricco estro esaltino questi argomenti; io, sol che la Musa assenta al mio canto e il lettore presti docile orecchio, intendo dire con umile verso le lodi della bicicletta». Pian piano, nello snodarsi elegante dei versi, la bicicletta assurge alla bellezza di un nuovo dono concesso dagli dei ai mortali. Come per gli scudi e le armi degli antichi eroi, nelle fucine ferve il lavoro per portare alla luce la nuova macchina. «E già mille veicoli trasvolano e d’ogni parte trascorrono lampeggiando ai raggi del sole e alla vivida luce: già mille giovani, già mille fanciulle esultano a balzare con agile slancio sulla sella inusata per monti e campagne solatie. […] O dei, quali intense e prima sconosciute gioie commuovono il petto del ciclista!». Non manca l’esaltazione di tutti quei piaceri, piccoli e grandi, che la bicicletta procura ai suoi cultori: la gioia, appena giunge maggio, di allontanare le cure angustianti, visitare città e genti lontane, stringere nuove e fide amicizie; «quante volte, come fra amici di vecchia data, essi si riuniscono nelle lor gare solenni a convito». (Come sa bene il mio deuteragonista!). A notte raggiungono il teatro dove giovani fanciulle dal fondo dei palchi ammirano il novello eroe e nascono amori (e qui non so se accada la stessa cosa all’orianiano direttore).
Il secondo poemetto tocca con maggiore ampiezza narrativa la bicicletta vista come strumento di Satana. Il diavolo compare infatti nel racconto pauroso che un prete inventa per distogliere il giovane figlio di amici dal desiderio di avere in premio una bicicletta. «Quasi romanzo» lo definì Ezio Chiorboli (11), il quale ci informa che Graziani stesso stese una traduzione per compiacere a Puntoni, grecista e ciclista, e per fare cosa gradita «a quanti quegli esametri erano piaciuti».
Bicyclula piacque a Carducci che nel 1900 (ottobre?) (12) scrisse all’autore: «Caro Graziani, ho letto la Bicyclula. Terso e sincero il latino: ma ho ammirato anche più luoghi per novità d’invenzione, per verità e modernità di rappresentazione, per garbo ed effetto nella descrizione: ingegno vero di poeta. Salve». Carducci non fu mai ciclista, ma neppure fu l’autore della definizione «arrotino impazzito» dato ai ciclisti, che circolò come sua nel congresso ciclistico del 1902 (13).
L’ode attesa da Oriani, degna di stare alla pari con l’Ode alla mongolfiera di Vincenzo Monti, o con la canzone Ad un giocatore del pallone di Giacomo Leopardi, ebbe invece una nascita un po’ forzata, non nobile, che Oriani avrebbe senza dubbio considerata quasi illegittima. Nacque cioè per concorso. Fu bandito nel 1900 dal Touring ed ebbe come vincitore Olindo Guerrini, capo console del Sodalizio sportivo per Bologna. Un concorso non è tale pienamente se non si accompagna ad uno strascico di polemiche e di contestazioni. Infatti, Vittorio Betteloni (14), che aveva pure lui inviato un suo Canto dei ciclisti, espresse sulla stampa il disappunto per la sconfitta e mise in dubbio l’imparzialità della Commissione. Non aveva torto: tra i due canti, non belli entrambi, il suo è più accettabile e, direi, più sincero. Ma Olindo Guerrini era troppo noto in Italia (oltre ad essere vice console dei ciclisti bolognesi) per non godere di un particolare riguardo. Il suo inno è decisamente brutto, e stupisce che l’autore della collana in dialetto dei divertentissimi sonetti E’ viazz(15) (Il viaggio) e di tanti freschi sonetti in lingua nei quali la ebbrezza del correre nelle chiare albe estive si ritrova nel veloce scorrere degli endecasillabi, risulti qui così stentato, generico, retorico, così poco se stesso. Mi sorge il dubbio sul tempo della stesura dell’inno. Non vi compaiono affatto la bicicletta, i ciclisti, o il volare, l’andare, il frusciare delle ruote, la lucentezza del metallo, tutto il corredo linguistico e metaforico proprio delle rime sulla bicicletta. Non avrà il Guerrini composto questa sua poesia, così poco stecchettiana, per altra occasione, riciclandola poi, impertinentemente, per il concorso? Il testo gonfio di esaltazioni alla patria, terra di eroi, alla sacra terra nostra, madre benigna e cara, al suolo beato che deve svelare gli arcani del genio suo, induce a ritenere giuste le proteste di Betteloni, il quale coglie la bellezza dei mattini aperti alla corsa, l’armonia tra lo sforzo fisico e l’intelligenza dell’uomo, in un rapido susseguirsi di settenari veloci: «Avanti, avanti! Rapidi / precipitando a volo / noi divoriam lo spazio / radendo appena il suolo, / ed irruente palpita / pieno d’ebbrezza il cor. […] E salir monti e scendere, / ne ‘l divin sole immersi, / cento ammirar spettacoli / di natura diversi, / gaudio e vigore attingere, / cercati altrove invano…». Ci sono tutti quelli che diverranno topoi letterari del ciclismo, ma c’è anche un ritmo scattante, una fervida comunicazione di fresca giovinezza. «Sono otto strofe – dice Falqui – che non sarebbero dispiaciute a Carducci» (16).
Sono questi gli anni in cui Luigi Vittorio Bertarelli, appassionato ciclista, oltre che podista e alpinista, ideò e realizzò le prime guide stradali, pensando anche ad un ciclismo turistico, dilettantesco, cui accordò sempre le sue preferenze. Nell’epoca delle macchine e della tecnologia avanzante, già oggetto di studi e di riflessioni in ambito europeo, l’Italia, o almeno gli intellettuali italiani sembrano temere «il macchinismo» qualcosa di mostruoso e mal dominabile, e trovare un rifugio, un’evasione dal pensiero scientifico, cui sono così poco abituati, nella macchina più elementare più casalinga, meno sconvolgente.
Sta finendo l’epoca dei viaggiatori illustri, da Goethe a Heine, a Stendhal, l’epoca del Grand-Tour con tappe e mete obbligate, studiato a completamento e coronamento dell’educazione della jeunesse dorée europea. L’Italia povera scopre ora la straordinarietà e la varietà dei suoi paesaggi, delle città d’arte, delle piccole pievi, e le scopre attraverso il gioioso «andare» con la bicicletta.
Alla fine del secolo, in Italia, l’esercizio del velocipede ebbe (ma non per lungo tempo), un tocco di snobismo, lo si praticava più per moda che per elezione dalle classi alte, interiormente ancora legate all’equitazione.
Un nobile di razza, Alessandro Guiccioli, nota nel suo Diario (17) le ore dedicate all’esercizio del velocipede e alle lezioni che prende insieme a Sonnino e a Bertolini. «Le prime prove riescono abbastanza bene – nota in data 19 settembre 1894 – ma temo che non avrò la costanza di proseguire». Il 23 settembre Sonnino ha già ceduto «perché l’esercizio gli causava palpitazioni». La bicicletta è, anche nei salotti principeschi «il grande argomento del giorno», ma, aggiunge Guiccioli: «non offre certo lo spunto a considerazioni molto argute». Povera, modesta bicicletta, quali mai considerazioni argute poteva suscitare nei principi Colonna, Caetani, o nei marchesi Guiccioli e Capranica, tra le dame di compagnia della Regina e i ministri dell’Italia umbertina?
Sarebbe interessante sapere quali reazioni produsse nel pubblico della lirica, il più tradizionale e il più abituato a certe fissità di scena, la presenza di una bicicletta nella Fedora di Giordano. Per riprendersi, dopo uno svenimento causato dall’aver appreso che il giovane biondo pianista che sembrava di lei innamorato, era in realtà una spia russa messa al suo fianco, la contessa Olga segue il consiglio di De Sirieux: una corsa in bicicletta! la didascalia del libretto dice: «Olga in costume di sportswoman […] va a staccare la sua bicicletta deposta sul fianco della gradinata», e scherzando sfida ad una gara De Sirieux, concedendogli pure tre chilometri di vantaggio. La prima della Fedora al Lirico di Milano si ebbe nel novembre 1898. Bisognerebbe, forse, andare a vedere i giornali dell’epoca per sapere se questa bicicletta in scena fu colta come elemento turbativo dello spettacolo.
Più che alla poesia, è alla prosa che dobbiamo affidarci per seguire il cammino della bicicletta nel suo divenire costume di vita che accomuna sempre più le classi sociali, offre libertà nuove alle donne, contribuendo non poco al loro movimento di emancipazione.
«Andarsene ovunque, ad ogni momento, arrestandosi alla prima velleità di un capriccio – scrive Oriani – senza preoccupazioni come per un cavallo, senza servitù come in treno», rappresenta una nuova dimensione del vivere. Le pagine più belle sulla bicicletta le ha scritte Oriani, le più divertenti Guerrini. Il primo, inchiodato nella sua casa di Casola, sogna l’andare «non importa dove», e il viaggio che fece solitario nel 1897 da Faenza in Toscana attraverso l’Appennino è rimasto nel suo ricordo e nel suo scritto l’unico bel sogno realizzato, grazie alla bicicletta. «Partire alla ventura, attendere dal capriccio l’ispirazione, essere più rapidi di un cavallo senza sentirci mai stanchi, arrestarci dappertutto, su qualunque strada, e giunti non serbare alcuna preoccupazione del viaggio compiuto e del come ricominciarlo, ecco il sogno. La bicicletta è così. La sua velocità rivaleggia con quella del vapore, mentre la sua fatica resta un giuoco: è piccola, lieve, muta. Vi si è in bilico, eppure si cessa di avvertirlo: può salire e discendere per qualunque strada, altrimenti la si piglia sotto un braccio e si prosegue egualmente spediti». Pur con la sovrabbondanza, a volte oratoria, che contraddistingue le pagine di Oriani, quasi un fiume in piena, incontenibile, maestoso e lutulento, il volume La bicicletta è uno dei più belli dello scrittore casolano e ben se ne accorse Renato Serra (18) che a lui dedicò uno studio attento, rigoroso, a lungo meditato.
Nella distribuzione dei ruoli, di cui ho dato avvertimento all’inizio, parlare di Oriani è zona off limits per me, di esclusivo dominio di Dirani, perciò non vado oltre nelle citazioni o nei commenti, per non incorrere nelle ire di chi non solo è specialista di Oriani, ma anche erede di quella passione per il ciclismo che egli anzi coltiva con maggiore costanza, con maggiore conoscenza di tutte le scaltrezze della corsa, e con uno spirito di sportiva competizione ignoto all’Oriani.
Altro ritmo di linguaggio e di narrazione usa Olindo Guerrini nel suo libretto del 1901, In bicicletta (19), che raccoglie scritti apparsi precedentemente in giornali sportivi. A Guerrini piace il ciclismo, sente la gioia della corsa tra le bianche strade, nelle ore del mattino, ma non si lascia trascinare più di tanto. Si diverte, piuttosto, a prendere in giro i benpensanti di fine Ottocento.
Dalle sue scherzose pagine ci viene incontro un’Italia vecchiotta, provinciale, ansiosa e timorosa del progresso, proprio quell’Italia che Oriani disdegna, rifiuta, colpisce duramente nella sua scontrosa lotta col mondo intero. Guerrini non ce la fa a sdegnarsi seriamente, risolve e dissolve nell’irrisione, nei ricami delle discussioni da lui stesso provocate (e non si sa mai se vere o inventate), gli episodi, i fatti, che rivelano il conservatorismo della provincia italiana, le ordinanze del sindaco, a limitazione dell’uso delle biciclette in città, le proibizioni dei vescovi all’uso della bicicletta da parte dei parroci, i commenti acidi delle signore nei confronti delle sfacciate giovinette in sella ai bicicli.
Nato nel 1845, il Guerrini scoprì la bicicletta in età matura, ma ne fu contagiato come un adolescente. Del resto, giovane di spirito Guerrini-Stecchetti lo fu sempre. Non solo amici, donne, letterati illustri furono bersagli delle sue burle. Anche la bicicletta gli ispirò pagine di puro divertimento, nelle quali spesso si annidava lo scherzo.
Sfidare i dotti in una disputa sugli effetti dello sforzo del ciclista sulla capacità di pensare limpidamente e con logica era una tentazione troppo forte: presentò quindi il bel sonetto «Via Emilia» quale faticoso prodotto elaborato durante una gita in bicicletta da Bologna a Rimini, e, dopo aver condotto egli stesso una sottile autocritica, pose il problema: «Mi proponevo di cercare e sapere se e come il mio cervello fosse atto ad un lavoro mentale durante un esercizio violento…». Molti caddero nella rete e si accese una appassionata discussione nella quale furono trascinati medici e letterati. Alla fine Guerrini dovette confessare: «non so come dirlo perché me ne vergogno… via, il sonetto non era fatto in bicicletta, ma al tavolino». Lo scritto Dante ciclista, poi, è un fare il verso ai tanti scritti danteschi, molti dei quali oziosi, inutili, pedanteschi che imperversarono per un certo periodo. `«Ma come – si chiede Guerrini – è lecito ignorare in questo anno di grazia e in un centro di cultura come Milano, che Dante fu tanto buon ciclista, che compiè il suo viaggio a traverso i tre regni montato in bicicletta? Dante fece il suo viaggio in pista, una pista circolare, e non ovale come ora costuma». Lo dice chiaramente Virgilio, allenatore di Dante: «… tu sai che il loco è tondo, / e tutto che tu sii venuto molto / pur a sinistra… / non sei ancor per tutto il cerchio volto»; e i due poeti vanno uno dietro l’altro come i ciclisti sulle strade terrene: «Lo mio maestro ed io dopo le spalle». Guerrini esprime il suo dubbio sull’ipotesi di alcuni commentatori che si trami di una gara tra Virgilio e Dante; ma se gara dovesse essere stata, è truccata: Virgilio «fa il patto» con Dante: «Io sarò primo e tu sarai secondo». Si potrebbe citare ancora, ma non vorrei lasciar credere che Guerrini sia solo schernitore e burlesco. I sonetti sulla bicicletta sono prova del suo sincero entusiasmo.
Se gli aristocratici romani prendevano dimestichezza con il nuovo mezzo di locomozione nelle «piste» a ciò predisposte e organizzavano gite sulla via Appia, i salotti e i circoli della borghesia di provincia si allineavano ai sindaci e ai vescovi nel condannare uno sport dal quale era facile prevedere un cambiamento di costumi. Nel primo decennio del ‘900 la bicicletta rappresenta la rivoluzione di consolidati ritmi e culti di vita, è il simbolo della trasgressione. I giovani la considerano l’alleata di possibili sottrazioni ai rigidi riti del corteggiamento e dell’amore sorvegliato; ma in un breve arco di tempo anche i padri di famiglia, gli intellettuali sedentari scoprirono nel suo uso impensate libertà.
Il turismo colto, alla ricerca di luoghi e di segni del passato, cominciò sulle strade bianche, polverose, assolate, percorse dai ciclisti dei Clubs amatoriali.
Qui troviamo Panzini. Una gioia pura, ingenua, quasi infantile, se non fosse troppo scoperta l’educazione del letterato, pervade il professor Alfredo Panzini, quando nel 1907 lascia Milano, la scuola, le lezioni private, gli esami, e dopo cinque giorni di bicicletta raggiunge la casa di Bellaria, sul mare. L’ormai famoso incipit del viaggio si carica, volutamente, di un tono trionfale: «L’11 di luglio, alle ore 2 del pomeriggio, io varcavo finalmente, dall’alto della mia vecchia bicicletta, il vecchio dazio milanese di Porta Romana» (20).
La grande Via Emilia si stende sotto i suoi occhi e dispiega la bellezza dei suoi campi, dei suoi borghi, dei piccoli cimiteri lombardi. Gli offre anche l’occasione di incontri con altri ciclisti e con gli ospiti dei piccoli alberghi durante le tappe. Ma Panzini ha già quarant’anni e non può quindi sentire l’ebbrezza tutta fisica e piena dei giovani. È, inoltre, un professore che non riesce a spogliarsi delle reminiscenze letterarie, dell’esercizio d’associare i luoghi a nomi ed eventi del passato. È un letterato che forbisce e arrotonda la sua pagina, la costruisce con sapienti dosature nel ritmo di una prosa dal fluire classico. «Che piacere quando giunsi alle rive del Po! Era un antico voto che scioglievo. Sa Iddio quante volte lo passai, ma sempre in treno, quel bianco Po, lento, fluente tra il meandro azzurro dei pioppi evanescenti […] Ora avrei potuto fermarmi, o Po, in mezzo alle tue acque, sul ponte di barche. Mi fermai infatti a dispetto delle zanzare, che quivi sono molte e feroci, e attesi se per le acque lontane giungesse alcuna voce di antica epopea, alcun sospiro dell’idillio di Aminta in cui tu esalasti l’anima giovane, o Torquato!».
Dopo aver ricevuto i complimenti per il suo ritmo ciclistico da un giovane, tutto preso dall’esercizio fisico e che ha ben altro in testa che l’Aminta e Tasso, prosegue: «tutto solo in uno stato d’ebbrezza, che non proveniva da liquore o da vino, ma dal sole e dalla libertà. […] Quanti bei nomi, andavo fantasticando, ebbero le antiche età per significare questa ebbrezza dell’andare liberi, senza orario e senza legge: i romei, i cavalieri erranti, i clerici vagantes, i trovieri…». Ricorda poi i santi e i santuari del Medioevo, Jaufré Rudel in viaggio per vedere Melisenda, messer Guido Cavalcanti che interruppe il viaggio in Provenza per una fanciulla. Ha anche la fortuna, sempre considerando la sua formazione culturale, di incontrare un viaggiatore
ciclista tedesco, col quale può intendersi ricorrendo alla lingua latina. Professore pure il tedesco; e la comunanza di conoscenze classiche, e di striminziti stipendi statali, rende cordiale e facile il dialogo. Dice il teutonico: «Domine professor, non more divitum et publicanorum, sed more clericorum vagantium iter in Italiam suscepi. Philosophia in Germania tenuem victum parat…». Il latino, la cena, il vino accendono gli animi dei due professori, così che Panzini si trova a recitare Manzoni e Carducci, che «il tedesco pareva capire benissimo», e il tedesco liriche patriottiche.
Mi si permetta un’ultima citazione. Quando giunge a Modena, Panzini loda la gentilezza dei suoi abitanti e va a trovare un riferimento nientemeno che nelle letture greche: «Io trovai dunque Modena meritevole di quegli epiteti di “ben costruita e felice” che Senofonte nell’Anabasi regala a tutte le città dell’Asia Minore…». Non c’è nulla da fare: il letterato non riesce mai a liberarsi da quell’accumulo libresco costruito nel lungo esercizio che lo porta a vivere in una seconda dimensione, a sentire attraverso altri: una vita, insomma, su due piani.
Più fresca, anche se ancora acerba stilisticamente, la novella La bicicletta di Nini, nella quale un ragazzo supera, in una angosciata corsa notturna, i pericoli reali e le paure immaginarie pur di far accorrere il medico dalla nonna infortunata.
Non tanto la paura della notte e del buio su strade disagiate e con un mezzo ancor poco sicuro, quanto il senso del mistero, delI’inquietudine di fronte a realtà diverse, fuori dal proprio mondo, ritroviamo nel bel racconto di Federigo Tozzi, Un’osteria (21). Qui i protagonisti sono due giovani che, attraversando in bicicletta l’Appennino, si trovano costretti a pernottare in un piccolissimo paese di montagna, in una osteria non certo ospitale, nella quale tutti, dalla donna cieca agli uomini che, nella selvatichezza del luogo, sembrano aprire sotterranee ostilità, alla maestrina, spaurita presenza ‘civile’ in una solitudine di spazi e di anime, comunicano uno strano disagio. «Partiti in bicicletta da Firenze, erano ormai dieci giorni che io e il mio amico Giulio Grandi giravamo l’Emilia; e siccome l’indomani egli doveva trovarsi in ufficio, alle Poste, partimmo, benché piovesse a dirotto, da Faenza, per tornare a tempo. Ma s’era già di novembre; e il cielo tutto bigio, con le strade fangose e piene di pozzanghere; gli alberi ormai con poche foglie gialle; e i primi monti dell’Appennino, su per la lunga salita, attaccati alle nebbie. […] Vedevo soltanto la sua maglia sbiadita e i suoi capelli impillaccherati sotto il berretto senza ormai più colore». Sono scomparse dal racconto di Tozzi le strade assolate, la gioia di «andare non si sa dove», il canto degli uccelli, il riso dei prati, che accompagnarono il viaggio di Panzini, di Guerrini o le passeggiate di Renato Serra. Viene colto, qui, un diverso aspetto del «girare» in bicicletta, ed è quello della fatica, del disagio, che i due giovani affrontano ancora con spirito sportivo – una variazione nel loro girovagare – ma che i braccianti e i lavoratori dei primi decenni del Novecento conosceranno bene. La bicicletta, per loro non rimanda ai voli, alla libertà: fa parte della fatica quotidiana del lavoro umano, che essa, anzi, allevia in parte.
Divagazioni letterarie ritroviamo in Carlo Linati. Lo scritto, tanto spesso ricordato, Sulle orme di Renzo (22), apre con la visione del bel cielo lombardo e della pianura che il ritorno della primavera illumina di freschi colori. La gita diviene però ben presto occasione per riflessioni sulla propria terra, sul carattere dei lombardi, su Renzo in fuga da Milano, sul Manzoni. «Ogni anno quando i gigli gialli fioriscono sulle pescaie della Muzza e delI’Addetta e i pioppi, lungo la provinciale della Bassa perdono nel sereno ventilato i loro bioccoli d’argento che sono come le parole che si scambiano fra loro questi innamorati della campagna, Donato ed io, incavalcate le nostre biciclette, andiamo a festeggiar maggio, s’uno de’ nostri canali. […] Quel mattino, usciti da Porta Orientale, raggiungemmo a Crescenzago il Naviglio della Martesana, poi, costeggiandolo, ci demmo a percorrere lo stradone che mena a Bergamo attraverso la campagna di Gorgonzola. Per lì era passato Renzo Tramaglino a’ tempi de’ tempi. Tratto tratto, tanto per ingannare la noia dei lunghi rettifili, scendevamo a terra, ci mettevamo a sedere sul ciglio dello stradone e, cavata di tasca un’edizioncina dei Promessi Sposi, io mi mettevo a leggere ad alta voce il primo passo che mi venisse sott’occhi». Ahimè, anche il libro si portano dietro questi letterati-ciclisti! Del Linati sono più evocative degli odori delle biciclette e delle emozioni delle prime gare le pagine Trotter e HP, nel libro di ricordi, Milano d’allora (23). «Il Trotter era in quegli albori di secolo il più fiorente ritrovo per corse al trotto e in bicicletta. […] Quanto discutere facevamo noi giovincelli, davanti alle botteghe dei negozianti di biciclette vagheggiando or questa or quella macchina esposta e numerando le innovazioni che di giorno in giorno venivano praticate alla moltiplica, alla forcella, alla catena, allo sterzo e le mai più finite meditazioni se si trattava di acquistarne una: da perderci i sonni!»
Enrico Falqui definisce la pagina di Linati, Sulle orme di Renzo, insieme a quella di Panzini, «una tra le più belle biciclettate della nostra letteratura la quale passa ingiustamente, presso quelli che non la conoscono, per una letteratura da gran sedentari».
Personalmente mi metto nella schiera di «quelli che non la conoscono», la letteratura italiana, perché mi pare che queste «biciclettate» dei nostri letterati confermino e testimonino la matrice sedentaria.
Un fatto è certo: questi nuovi cavalieri erranti dell’epoca moderna si trascinavano sempre dietro l’abito, la mentalità, a volte la pedanteria, del letterato di professione. Per avere pagine ariose, vivaci, veri ‘canti’ alla bicicletta e alle corse ciclistiche, occorre ricorrere, come dicevo all’inizio, alle pagine sportive o ai giornalisti sportivi. Mi sentirei di aggiungere che la bicicletta, sempre escludendo i primi suoi cultori, da Oriani a Guerrini, ha suscitato un novello interesse e ispirato i più bei scritti in suo onore, negli anni Ottanta, quando «l’invito del governo a risparmiare energia, l’appello degli assessori a non ingolfare il traffico, l’esortazione degli ecologisti a non inquinare l’ambiente» (24) hanno spinto a staccare la bicicletta dal chiodo e a ritessere gli elogi del vecchio, economico mezzo di locomozione.
Dopo Linati, venendo a noi più vicino nel tempo, potrei ricordare Giovanni Guareschi (25), che nel 1941 compì un giro cicloturistico per il «Corriere della Sera», precisamente dai primi di luglio al 12 agosto.
La stoffa del giornalista si vede nelle pagine che narrano il viaggio, e le brevi, lampeggianti citazioni letterarie sono piccoli tocchi, umoristicamente dati, ad uno scritto mosso, rapido, quasi in sintonia con la velocità del turista. «Farò milleduecento chilometri in bicicletta – comunico a Ennia e, approfittando della magnifica mattinata del 10 luglio, inforco la bicicletta e parto». Prima sorpresa è data dai calzoncini corti che sembrano suscitare divertiti commenti nelle ragazze e nelle donne che incontra. «A Fombio una donna matura e con due gran baffi, che pedala su una bicicletta da corsa, mi sghignazza in faccia. E questo mi secca perché io non ho sghignazzato vedendo una donna matura e con gran baffi pedalare su una bicicletta da corsa». Ma ben presto capisce il perché. «È triste ma deve essere proprio così: se il mio giovane fratello si mette i calzoncini corti, la gente dice: Ecco un giovanetto in tenuta sportiva. Se, invece, me li metto io, la gente urla: Ecco un uomo in mutande!». Parma, Reggio, Bologna, Rimini. Dopo aver girovagato, «Finalmente ecco il mare: Talatta, talatta, dico fra me (ma con l’esatta grafia greca) ricordando la traduzione col testo a fronte dell’Anabasi,» (di nuovo il Senofonte ginnasiale!). A Ravenna giunge all’inizio della mattinata, quando la città si sveglia. «Per me Ravenna è una città rovinata dai libri di testo delle scuole secondarie. Per colpa sua io ho avuto rovinate ottime giornate della mia giovinezza e un esame di storia delI’arte a ottobre». Le impressioni più belle sono quelle lasciate dal percorso lungo il Po e dal mulino galleggiante, l’ultima reminiscenza dei Mulini bacchelliani.
A differenza di Panzini o di Linati, Renato Serra, ciclista, sportivo (e non della sola bicicletta!), non narra i suoi viaggi per le terre di Romagna, di Toscana, del Lazio. Eppure quella sua «meravigliosa bicicletta» la sentiamo come una presenza costante, la compagna dei suoi viaggi, per lo più solitari, da Bologna a Cesena, da Firenze a Cesena, a Roma (dove svolge il servizio militare, e si lamenta che le marce e gli esercizi non gli concedono molto tempo), per la Romagna. Nel 1903 scrive un sonetto sulla bicicletta, il suo «destrier fremente», ma questa come altre sporadiche composizioni sono puri esercizi metrici. Serra non si lascia trascinare dalle divagazioni letterarie. Per lui questo sport ha qualcosa di più rispetto ad altri perché gli dà autonomia di movimento, gli permette di tornare a casa, quando è studente a Bologna, o di andare a trovare l’amico Panzini in villeggiatura a Bellaria. Ed è uno sport che lo fa sentire agile, lo libera dalle cure dello studio. Non è solo la bicicletta che gli piace, gli piacciono anche la fatica fisica, il camminare, il mantenere il corpo sciolto, esercitato. Scrive alla madre nel 1907 da Firenze: «Mi sono iscritto a una palestra ginnastica per la sera: è d’obbligo la maglia nera. Ti prego di mandarmi la mia (quella che fu fatta fare insieme coi calzoni per la bicicletta)». E nel 1909 all’amico Plinio Carli: «È un mese forse che non mi son seduto a questa tavola: e la penna si rigira assai goffamente fra le dita abbronzate e più usate ormai al manubrio della bicicletta e alle spume salse che le fiorivano nelle lunghe nuotate» (26).
Nella sua sottile sensibilità, Marino Moretti non si lascia trascinare da novità o da entusiasmi sportivi. Nell’arguto racconto Non so andare in bicicletta(27) guarda con distaccata indifferenza la bicicletta che il fratello ha voluto, mettendo in apprensione ed angoscia i genitori e la vede troneggiante «come una statua: in mezzo al tinello come Giuseppe Garibaldi sul piedestallo in mezzo a una piazza».
A voler essere rigorosi sulla definizione «scrittori della bicicletta» e non perdersi nell’elenco delle citazioni nelle quali compare la parola magica, evocatrice di storie particolari, di emozioni, di sentimenti, il mio compito termina qui. Dagli anni Trenta in poi la bicicletta è presente nei libri di memoria, nelle autobiografie, nelle narrazioni di adolescenti incontri ed amori. È la bicicletta oggetto di desiderio in una Italia povera, dagli scarni stipendi e dagli altrettanto misurati consumi, nella quale l’acquisto della bicicletta costituiva un sacrificio rilevante per le famiglie. Nel ceto borghese impiegatizio divenne il premio al figlio che terminava gli studi superiori; tra gli operai, i braccianti, i contadini, essa era uno strumento di lavoro; spesso, la condizione per avere un lavoro. Durante la guerra in bicicletta si muovevano le staffette della guerra partigiana e nei difficili anni del dopoguerra costituiva l’unico mezzo per la gita al mare o in collina d’estate, per merende all’aperto.
Il furto di questo prezioso mezzo rappresentava un vero e proprio dramma. Si pensi al bel film di De Sica Ladri di biciclette, il quale non ha niente in comune, se non il titolo, coll’omonimo romanzo di Luigi Bertolini (28). Sarei propensa a collocare questo lungo racconto tra le pagine che più sentono la familiarità, la fraternità dell’uomo col suo «cavallo d’acciaio». Bertolini ci trasporta in una strana Roma, una Roma quasi pasoliniana, se non ammiccasse tra le pagine uno spirito sfumatamente umoristico, una Roma di furfantelli, di imbroglioni, di ladri di professione, di stanchi guardiani dell’ordine, non si sa mai se in combutta o no con i ladri, dove il furto di una bicicletta è di ordinaria amministrazione, e la traduzione in carcere dei responsabili (se mai fosse possibile individuarli e catturarli) oltre ad essere ben poca cosa, turberebbe un equilibrio faticosamente raggiunto. Drammatico, amaro il film; condotto con spirito divertito e irridente il racconto, che ha l’andamento di una quête medievale trasportata nella Roma degli anni Quaranta.
Al termine di questa mia chiacchierata sulla bicicletta, mi accorgo (e chi non se ne accorgerà!) che manca totalmente la letteratura meridionale (non me la perdoneranno Dirani e i suoi amici ciclisti).
Il limite è imputabile principalmente alle mie scarse conoscenze, letterarie e non, sul preciso tema, ma anche al fatto che è la Padania la parte geografica dell’Italia che più si presta ai lunghi percorsi in bicicletta, alle gite possibili anche ai ciclisti di modesta tenuta sportiva. «La Bicicletta vuole la pianura, la Bicicletta è nata per la Padania, per quella gran tavola imbandita con boschi, campagne, fiumi e giardini e città, riposanti in piano, come i pezzi della scacchiera» (29).
Potrei infine, a fugare eventuali ombre di predilezione per l’Italia settentrionale, ricordare Gesualdo Bufalino che alla bicicletta, miraggio anche per i ragazzi del Sud, dedica una rapida scheda del suo Museo d’ombre (30): «Una Wolsit dal sellino fuori sesto e dai freni senza vigore fu il difficile sogno di ogni sabato pomeriggio. Si prendeva a nolo da Suschidda, per quattro soldi ogni quarto d’ora. Giusto il tempo di scendere a precipizio fino alla stazione e di risalire poi, se si sopravviveva, pigiando forte coi tacchi sui pedali, fra i sardonici incitamenti dei coetanei pedoni: “Viddanu, pitalìa” (Contadino, pedala!). Con le magliette grondanti e il cuore a pezzi nei cerei toraci, era allora il momento di buttarsi a sedere sui bastioni della Chiesa Madre, e di esporre entrambe le guance al primo e al secondo ceffone del genitore in agguato».
Post scriptum
Un doveroso avvertimento va fatto al lettore che non fu presente alla conversazione del 1987: non creda alla competenza letteraria sulla bicicletta che Dirani mi attribuisce per più liberamente spaziare a tutto campo.
In realtà in questo mio scritto svolgo il ruolo di quell’ultimo, bolso, umiliato ciclista, che arranca dietro (dovrei dire, anzi, «a grande distanza») alla schiera degli orianiani che cantando varca, portando sulle strade della Toscana le maglie con l’orgoglioso motto di «Casa Oriani», l’erasmiano Nulli cedit.
(1) A. Oriani, Viaggio in bicicletta con altri scritti di viaggio, Bologna, ed. M. Boni, 1986. Con questo titolo l’editore ha raccolto scritti vari di Oriani, tratti da Bicicletta, Memorie inutili, Al di là, Gramigne, Fino a Dogali, Ombre di occaso, Ultima carica.
(2) Scrittori della bicicletta, cura di N. Bertellini, Firenze, Vallecchi, 1985. Il volume contiene una ricca raccolta di prose e poesie sulla bicicletta. Manca di un indice nel senso proprio del termine, avendo il raccoglitore seguito l’ordine della data nella quale i testi riportati apparvero (ma senza indicazione di pagina). Spesso manca l’indicazione della fonte da cui sono tratti gli scritti.
(3) R. Ceserani, Treni di carta, Genova, Marietti, 1993.
(4) I canti di Castelvecchio.
(5) La rosa delle siepi, in Odi e Inni.
(6) G. Gozzano, Le due strade, in I colloqui, Milano, Garzanti, 1949.
(7) C. Govoni, Poesie scelte, Ferrara, Taddei, 1918.
(8) D. Campana, Il più lungo giorno, Firenze, Vallecchi, 1974.
(9) G. Caproni, Il terzo libro e altre cose, Torino, Einaudi, 1968.
(10) Lira classica. Versioni e poemetti originali di L. Graziani. Introduzione e traduzione di V. Ragazzini, Bologna, Zanichelli, 1931.
(11) E. Chiorboli, Il Graziani, i “Sepolcri” del Foscolo latini e il Tommaseo, op. 1927.
(12) G. Carducci, Lettere, vol. XX, Bologna, Zanichelli.
(13) G. Carducci, Lettere, vol. XXI. A Ottone Brentani. 20 maggio 1902: «Caro signore, non è vero che la frase “arrotino impazzito” sia uscita dalla mia bocca. Eccola servito. Sono suo». Per i raccoglitori di notizie sulla bicicletta e sul pericolo che essa poteva costituire per distratti pedoni, può essere curiosa la lettera del Carducci al cugino Lazzeri che gli chiedeva l’interessamento per un amico ciclista che colla bicicletta aveva ucciso un vecchio ubriaco. Cfr. Lettera n. 6174, del 27 settembre 1904.
(14) V. Betteloni, Opere complete a cura di M. Bonfantini, Milano, Mondadori, 1946. La storia di un concorso fu pubblicata nell’illustrazione italiana, 1 giugno 1900.
(15) O. Guerrini, Sonetti romagnoli, Bologna, Zanichcili, 1948.
(16) E. Falqui, Gli scrittori in bicicletta in «Quadrivio» 8 agosto 1937, poi in «Il Broletto», settembre 1938, col titolo Affìttansi biciclette. ovvero la bicicletta nella letteratura italiana.
(17) A. Guiccioli, Diario, in «Nuova Antologia», 1 gennaio 1941.
(18) R. Serra, Scritti a cura di G.De Robertis e A. Grilli. Firenze, Le Monnier, 1958.
(19) L. Stecchetti (O. Guerrini), In bicicletta, Catania, Giannotti, 1901.
(20) A. Panzini, La lanterna di Diogene, Milano, 1927.
(21) F. Tozzi, Opere, a cura di M. Marchi, Milano, Mondadori, 1987
(22) C. Linati, Sulle orme di Renzo. Pagine di fedeltà lombarda, «Quaderni della Voce», 15 maggio 1919, n. 30.
(23) C. Linati, Milano d’allora, Milano, Editoriale Domus, 1946.
(24) C. Marchi, Elogio della bicicletta, «La Gazzetta di Parma», 24.4.1983.
(25) G. Guareschi, Chi sogna nuovi gerani? Autobiografia, a cura di Carlotta e Alberto Guareschi, Milano, Rizzoli, 1993.
(26) Epistolario di Renato Serra, a cura di L. Ambrosini, G. De Robertis, A. Grilli, Firenze, Le Monnier, 1953.
(27) M. Moretti, Parole e musica, Firenze, Vallecchi, 1936.
(28) L. Bertolini, Ladri di biciclette, Firenze, Vallecchi, 1936.
(29) G. Artieri, Quasi un elogio della Bicyclula, in Scrittori della bicicletta, cit.
(30) G. Bufalino, Museo d’ombre, Palerrno, Sellerio, 1982.
Mi piace:
Mi piace Caricamento...