Fanino Fanini
Evangelico faentino per la sua fede impiccato ed arso
Testo di Giorgio Bassi
Quali siano state le vicende della vita di Fanino Fanini lo diranno le pagine che seguono, tratte dal Dizionario Biografico degli Italiani. Si tratta di una voce ben documentata e consapevole di una bibliografia non sterminata, ma consistente.
A me dunque spettano alcune riflessioni iniziali.
Non ho una particolare predisposizione per la storia patria o storia locale (comunque la si definisca), devo perciò confessare che il mio interesse per Fanino è stato suscitato dai due faentini che nel nostro secolo hanno legato il loro nome ai casi dell’ eretico suppliziato a Ferrara. Due uomini certo non unanimemente amati dai concittadini loro contemporanei. Si tratta di un prete, Francesco Lanzoni e di un laico, Giovanni Cattani. Entrambi, in tempi e in modi diversi, si sono occupati di Fanini. Anzi, a mio modo di vedere, proprio il giudizio morale su un personaggio come Fanino è ciò che più li accomuna.
Cattani provava un sentimento di grande affinità spirituale per Lanzoni. Aveva anche fatto in tempo a conoscerlo di persona, da bambino e, in seguito, morto il sacerdote nel 1929, fin dagli anni dell’università, aveva iniziato ad occuparsene come studioso. Curò infatti, tra l’altro la pubblicazione de L’itinerario spirituale di Francesco Lanzoni, per i tipi di Lega (1). Ne fece inoltre un ritratto davvero coinvolgente nelle sue Note faentine (2). In queste ultime ribadisce con decisione l’attaccamento totale e incondizionato di Lanzoni all’ortodossia cattolica, pur nel travaglio della coscienza. Il laico Cattani difende appassionatamente il prete Lanzoni dall’accusa di modernismo che gli fu portata a più riprese e in forme non sempre leali (per usare un eufemismo).
Ne La controriforma nella città e diocesi di Faenza (3) è dedicato a Fanino l’ottavo capitolo. Lanzoni, pur componendo un’opera storica di grande valore per la nostra città, quali che siano le opinioni di chi la legge (ma non si deve dimenticare, credo, che la sua appartenenza alla comunità scientifica internazionale è legata soprattutto alla sua opera di dottissimo agiografo), non smentisce mai di farlo dal punto di vista di un prete cattolico. E mi pare che questo confermi l’opinione di Cattani riportata in precedenza. Ad esempio parlando della conversione di Fanino alle dottrine protestanti usa il termine “pervertimento” (4), in altro punto definisce “rinnegati” i religiosi che hanno abbandonato la Chiesa di Roma per la Riforma. Ancora maggior valore va perciò attribuito al brano qui sotto riportato:
“La tragica fine del giovane fornaio faentino [si tratta ovviamente di Fanini] desta commiserazione e pietà. Certo egli non abbracciò le idee dei novatori per darsi a vita libera e sensuale, come facevano parecchi preti e frati suoi contemporanei; né, perseguitato e cercato a morte, per evitare il carcere e l’estremo supplizio fuggì dall’Italia e riparò in Svizzera, come fra Ochino e altri rinnegati, ma rimase in patria e pagò di persona. Fanino, come parecchi suoi compaesani, fu giovane ardente, entusiasta e coraggioso, fornito di naturale facondia e non ignaro delle lettere e della poesia. Egli accettò i sistemi teologici d’oltralpe e se ne fece appassionato e animoso propagatore, forse più per dispetto contro l’ignavia, l’ignoranza e i vizi intollerabili del clero contemporaneo che per altre ragioni. Morì con forza d’animo e con serenità” (5).
A parte le considerazioni iniziali che sono di sostanziale apprezzamento morale (anche se la scelta di Fanino viene presentata inevitabilmente come una scelta “in negativo” contro i vizi del clero e non come una convinzione in positivo) la chiusa di questo paragrafo suona senza alcun dubbio come un’epigrafe commossa.
Più avanti, nello stesso capitolo, Lanzoni passa in rassegna i numerosi martirologi di parte protestante che si occuparono di Fanino e qui si palesa l’agiografo di razza che si ribella di fronte alla grossolanità di certe ricostruzioni della vita del Fanini, e paragona gli autori di tali resoconti a quegli “scrittori del III, IV, V, VI secolo [che] manipolarono e raffazzonarono gli Atti sinceri degli antichi martiri cristiani” (6). In questo modo Lanzoni, con suprema ingenuità o forse, chissà, con sublime ironia, mette l’uno a fianco agli altri, sullo stesso piano, l’eretico faentino e i primi martiri cristiani.
Quanto a Giovanni Cattani non mi risulta che egli abbia mai pubblicato nulla su Fanino. Per lui fece qualcosa di diverso, ma ugualmente significativo. Si prodigò perché al “giovane fornaio” fosse dedicata una strada. Non un’anonima strada di periferia, ma una piccola via del centro, a poche centinaia di metri dalla piazza. Erano in effetti gli anni della prima amministrazione di sinistra a Faenza dopo un trentennio di governo democristiano. Sono sicuro però che Cattani non fece quella proposta con spirito di rivalsa o mosso da un atteggiamento di anticlericalismo old fashion (che gli era totalmente estraneo) né conosco per nulla quali siano state le reazioni della Curia faentina (se pure vi furono). Si trattò per certo, di una proposta “in positivo”, per dare memoria al nome di una persona morta per testimoniare le proprie più profonde convinzioni. E la targa in ceramica, dettata dallo stesso Cattani recita, come ognuno può vedere: “Fanino Fanini, evangelico faentino, per la sua fede impiccato ed arso”. Queste parole fanno di una semplice targa stradale un piccolo unicum poetico di cui ritengo la nostra città debba andar fiera, quali che siano le opinioni di chi lo legge.
In una pagina di Note faentine c’è la chiave, credo, per capire fino in fondo il significato della intitolazione di una via del centro ad un “eretico”; questo significato, come si può ricavare dalle parole che seguono, va al di là del caso di Fanini e coinvolge la nostra vita di tutti i giorni:
“La storia abitua sempre ad essere più equanimi; la comprensione storica è la medicina più sicura contro il fanatismo e la base più solida del rispetto per la libertà degli avversari. La quale è assicurata solo quando si è persuasi che gli avversari sono indispensabili. Cioè ci debbono essere e non già dire: ci sono, ma quanto sarebbe meglio che non ci fossero. Finché si ragiona ingenuamente così si è sempre disponibili per l’eliminazione degli avversari perché si accetta in linea di principio la loro assenza come l’optimum desiderabile. Invece si può considerare la grande conquista storica, la più grande, della carità cristiana, l’indispensabilità degli avversari, la loro necessaria presenza” (7).
Da Fanino è inevitabile che si vada a parlare di Faenza come città infetta, appestata dall’eresia in modo tanto più virulento in quanto le infiltrazioni protestanti avevano colpito tutti i ceti sociali. Anzi secondo un’opinione riportata da Simonetta Adorni Braccesi, la nostra città rientrerebbe nel novero di quei centri italiani in cui più a lungo durò l’illusione della possibilità di professare liberamente la propria fede.
“Si tratta di situazioni particolarissime che si incontrano in quattro casi: Modena, Lucca, Faenza e Trento. Ivi una consistente adesione al movimento filoriformatore di esponenti della nobiltà vecchia e nuova poteva e fece anche sperare, per periodi di tempo più o meno brevi, in una protezione delle magistrature cittadine, cui quegli stessi esponenti si avvicendavano” (8).
Se anche a Lucca, orgogliosa repubblica di mercanti (molto simile, dal punto di vista istituzionale, alle libere città imperiali della Germania dove la riforma protestante aveva attecchito e si era sviluppata), in non molto tempo, l’Inquisizione romana riuscì a prendere il sopravvento, costringendo un bel numero delle famiglie più in vista all’emigrazione coatta (9), figuriamoci cosa poteva accadere a Faenza. Da noi il momento più convulso deve spostarsi molto in avanti rispetto alla morte di Fanino, nel 1567-68 (10).
Nel 1566 era diventato papa, col nome di Pio V, il domenicano Antonio Michele Ghislieri. Si trattava, si direbbe oggi, di un segnale molto forte, da parte del collegio dei cardinali. Infatti il Ghislieri era nientemeno che il Grande Inquisitore. Se si considera che, nei conclavi del precedente ventennio, avevano seriamente rischiato di diventare pontefici Reginald Pole e Giovanni Morone, prelati molto aperti al dialogo con le istanze della riforma (11), si capirà che i giochi erano veramente fatti ed era iniziata a tutti gli effetti la controriforma post tridentina.
Cattani ce l’aveva spesso in bocca la controriforma. Quando ero suo allievo era proverbiale, tra noi studenti, una frase divenuta davvero cult: “è tutta colpa della controriforma”. Frase che, in realtà, il nostro insegnante non aveva mai pronunciato così, sic et simpliciter, ma che era un’efficace sintesi di molte delle sue lezioni, anzi di quelle perorazioni che Cattani iniziava quasi per caso e proseguiva con gli occhi socchiusi e la testa alta come per seguire meglio il filo dei suoi pensieri. E leggendo alcune parti delle Note faentine, uscite del resto appena un anno dopo che io ebbi terminato il liceo, mi sembra proprio di ascoltare Cattani dal banco di scuola. Ecco ad esempio come egli sintetizza la reazione controriformistica nella nostra città dopo la scoperta dell’ “infezione”:
“Nella nostra città….[la tradizione cattolica] più che in altre parti della penisola si protraeva beatamente in pace al riparo dell’«errore» e anche quando questo fece una volta capolino in forma assai embrionalmente organizzata, fu spazzato via, nonostante il grande spavento provocato, con estrema facilità. Beninteso si provvide a disinfestare l’ambiente con ogni cura, si instaurò un ottimo servizio di informazione e delazione (una congregazione laica, la Compagnia della Santa Croce, ebbe nome dal popolo di spie dell’Inquisizione), si aggiunse un buon numero di altri ordini e congregazioni religiose a quelli già esistenti in città, si stabilì un più severo controllo sulla vita familiare e di gruppo in ispecie dei ceti più abbienti” (12).
Secondo Cattani le conseguenze di questa reazione (dappertutto, ma a Faenza in particolare) si erano protratte nel tempo fino a investire le nostre abitudini di contemporanei e soprattutto la nostra forma mentis (espressione da lui molto usata), ma non è questo il luogo per parlare di tali importantissime questioni. Torniamo al XVI secolo. Sul fatto che la Chiesa riformata a Faenza fosse “assai embrionalmente organizzata” pare lecito avanzare qualche dubbio, certo la reazione dell’Inquisizione fu terribile.
Gli arresti e anche le esecuzioni furono numerosi e coinvolsero tutti gli strati sociali. Si vociferava addirittura che Pio V avesse in animo di organizzare una specie di deportazione in massa dei faentini con l’intenzione di fare di Faenza una colonia. C’è un documento dell’aprile del 1568, riportato dal Lanzoni (e conservato nel nostro Archivio di Stato) che è di straordinario interesse. Si tratta di una lettera inviata al Magistrato della nostra città (gli Anziani) da parte di alcuni faentini (i loro nomi, Severoli, Zanelli, Armenini sono fra quelli della elite cittadina) residenti in Roma e a vario titolo rappresentanti della comunità presso la corte pontificia. Sollecitati dagli Anziani ad intervenire a favore dei loro conterranei dopo gli arresti degli “eretici” essi si mostrano indecisi e irresoluti a tutto. Forse è fin troppo facile infierire, ma questi signori sembrano davvero annichiliti. D’altra parte probabilmente non avevano tutti i torti a considerare controproducenti alcune avances del Magistrato faentino.
“Ultimamente fu concluso da tutti che era cosa difficile et quasi impossibile, per ciò che il parlar a Sua Santità che non si proceda più oltre in simil causa [d’eresia] è domanda impertinente et non scusibile, perché la città mostrarebbe esser più infettata che in fatto non è” (13).
Prosegue poi la lettera scartando una ad una tutte quelle che, evidentemente, erano proposte fatte dagli Anziani: non si può chiedere che le cause si “espediscano a Faenza” (si tratterebbe, dico io, di un residuo slancio di autonomismo cittadino che appare ormai davvero anacronistico); non è opportuno chiedere che le cause si celebrino con celerità; non è bene che siano loro, residenti in Roma, a tentare di intercedere ecc. Le proposte non sono molto più concludenti, come la seguente, insulsa fino all’impudenza:
“Habbiamo similmente pensato che sarebbe utile far istantia che si scoprissero gli accusatori che par si dica haver dato certe liste, per far conoscer a tutt’il mondo la malignità loro; il che però ci par cosa difficile, per rispetto di trovar prova sufficiente sopra ciò”. (14)
E’ chiaro che dopo aver manifestato simili posizioni l’unico atteggiamento realistico sia quello di star fermi immobili aspettando la fine della buriana. D’ora in poi non ci sarà più spazio, nella nostra comunità, per quel sentimento di autonomia “repubblicano” che pur anima fino alla fine dell’antico regime i ceti dirigenti di molte città soggette ad un principe o ad una dominante. Si deve ancora ricordare che nel 1570 il Cardinal Legato di Bologna e Romagna, Alessandro Sforza depennò dall’albo dei Consiglieri di comunità 28 nominativi e 32 da quello dei Cento Pacifici.
Son lontani ormai perfino i tempi in cui nel mettere a morte Fanino vi erano stati tentennamenti, raccomandazioni, pressioni. Anni luce sembrano dunque passati dal periodo in cui il popolo (in tutti i suoi ceti) credeva di poter prendere la parola per giudicare i propri pastori o per fare discorsi intorno alla propria anima come è testimoniato in quelle emozionanti pagine di Federico Chabod in cui si riportano le meditazioni sulla grazia, sulla salvezza, sulla predestinazione, di un modesto scrivano milanese rimasto anonimo (15).
Un’ultima considerazione, da bibliotecario questa volta, riguarda il Dizionario Biografico degli Italiani opera per vari motivi in crisi di cui si è più volte parlato, negli ultimi anni, anche sulle pagine culturali dei quotidiani. Come forse si sa il consiglio dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana (la cui opera di gran lunga più conosciuta è, mi scuso per l’eccesso di informazione, la cosiddetta Enciclopedia Treccani), delle cui iniziative editoriali è parte il DBI, è stato sul punto di decretarne la fine per eccessiva passività. Il primo volume del Dizionario è uscito nel 1960, oggi (1998) siamo giunti con il vol.47 alla metà della lettera F. Un ritmo troppo lento? Per alcuni decisamente sì, per altri, invece, una maggiore frequenza significherebbe soltanto snaturare l’opera imponendo ingiusti tagli nelle scelte dei personaggi e mettendo in forse la serietà delle singole voci.
Non entro nel merito della questione generale, anche se mi piacerebbe tanto che ilDizionario continuasse ad essere serissimo e nello stesso tempo velocizzasse di molto le proprie uscite. Ho fatto però una piccola indagine (spero di non aver violato troppo la legge sulla privacy) e ho scoperto che l’autrice della voce qui di seguito riportata, Lucia Felici, venne nella nostra biblioteca a far ricerche su Fanino nel maggio del 1988. Ora, considerato che il relativo volume del DBI è del 1994, pur ammettendo che le bozze non siano state consegnate che dopo qualche mese (non sono così presuntuoso da pensare che una visita alla nostra biblioteca esaurisse la ricerca), non posso non rilevare che sei anni di tempo appaiono decisamente troppi, pur essendo ovvio che non tutte le voci di quel volume saranno state composte nel medesimo 1988. Mi sembra comunque che questo esempio possa dare qualche lume sui ritmi di produzione del Dizionario.
Del resto alle considerazioni precedenti se ne aggiunge subito un’altra sempre relativa al DBI. Scenderò ancora di più sul piano dei ricordi personali. Quando venne, la Felici, mi fece l’impressione di una giovane appena laureata che veniva usata come “negretto” da un qualche docente universitario: situazione, per chi opera in una biblioteca, abbastanza frequente e, anche se non viene esplicitata, piuttosto evidente (nonché un poco penosa). Sono contento di essere stato smentito dai fatti. La Felici ha firmato la voce Fanini. Inoltre devo aggiungere che ha pubblicato di recente, per una importante casa editrice fiorentina, un saggio sul teologo protestante del cinquecento Martin Borrhaus (16). Quando venne mi permisi di chiederle se avesse preso contatto con Cattani. Non le era sconosciuto e mi pare di ricordare che mi dicesse poi di avergli telefonato. La domanda è: perché il DBI, per le voci più “localistiche” non sfrutta studiosi seri delle città e terre in cui visse e operò il personaggio di cui deve trattarsi? In effetti per quanto riguarda la nostra città dopo la collaborazione, per un certo tempo piuttosto intensa, di Ennio Golfieri (Ballanti Graziani, Bertolani, Bertucci, Biagio d’Antonio), dopo la lettera B (salvo smentite che sarei contento di ricevere) il rapporto con i “genii loci” mi sembra completamente inaridito (vi è l’eccezione di Pietro “Bibi” Marsilli per la voce Ferniani, ma si tratta di un “emigrato”). Non vorrei che (sempre che il nostro caso sia generalizzabile) possa essere questa mancanza di collegamenti con la periferia o, se si preferisce, con la provincia, una delle cause (certo la meno importante) della crisi del DBI.
(1) E.VALLI e G.DONATI, L’itinerario spirituale di Francesco Lanzoni, a cura di G.Cattani, Faenza, Lega, 1958
(2) G.CATTANI, Note faentine, Faenza, Lega, 1974, pp.97-104
(3) F.LANZONI, La controriforma nella città e diocesi di Faenza, Faenza, Lega, 1926
(4) ivi, p. 90.
(5) ivi, p. 95.
(6) ivi, p. 98.
(7) G.CATTANI, Note faentine, cit., p. 20.
(8) S.ADORNI BRACCESI, Una città infetta. La repubblica di Lucca nella crisi religiosa del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1994, Premessa, p. XIII. Voglio qui ricordare, per spirito di campanile, che un notevole saggio sui movimenti religiosi cinquecenteschi in un’altra importante città toscana, Siena, è stato scritto dal faentino, Valerio Marchetti: Gruppi ereticali senesi del Cinquecento, Firenze, La Nuova Italia, 1975.
(9) Soprattutto nella Ginevra di Calvino. Recentemente, il 28 marzo 1998, a Lucca si è tenuto un seminario dal titolo L’emigrazione confessionale dei lucchesi in Europa (XVI-XVII secc.). Nell’occasione è stata conferita la cittadinanza onoraria ai discendenti di due famiglie emigrate.
(10) Si veda quanto pubblicato da Lanzoni nel “Bollettino diocesano” faentino del 1927 (I nuovi documenti sui”luterani” faentini, pp. 80-86, 100-104, 117-119. A completamento della piccola bibliografia sui drammatici fatti dell’inquisizione a Faenza va ricordato M.G.TRERE’, Gli avvenimenti del sedicesimo secolo nella città di Faenza con particolare riguardo ai processi e alle condanne degli inquisiti per eresia, in “Studi Romagnoli” VIII (1957), pp.279-297.
(11) Si veda M.FIRPO, Riforma protestante ed eresia nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 1993, in particolare il capitolo L’eresia ai vertici della Chiesa e il nicodemismo. Questo testo si affianca a quello di S.CAPONETTO, La riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino, Claudiana, 1992, nel dare per la prima volta una visione di in-sieme del movimento riformatore nelle città italiane. Il noto volume di Delio Cantimori Eretici italiani del Cinquecento, infatti punta sopratuttto sull’esame delle singole personalità.
(12) G.CATTANI, Note faentine, cit., p. 11.
(13) F.LANZONI, La controriforma nella…., cit., p. 209.
(14) Ivi, p. 210.
(15) F.CHABOD, Lo stato e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V, Torino, Einaudi, 1971, p.333 e sgg.
(16) Tra riforma ed eresia. La giovinezza di Martin Borrhaus, 1499-1523, Firenze, Olschki, 1995.
Nacque a Faenza (od. Provincia di Ravenna) intorno al 1520 da Melchiorre e Chiara Brini. Un suo biografo, Giulio da Milano lo dice «giovine» nel 1550.
La famiglia era popolana ma agiata: fornai da alcune generazioni, i Fanini possedevano una casa nella parrocchia di S.Stefano, una vigna e qualche altro appezzamento di terreno; la Brini aveva portato in dote la somma piuttosto cospicua di 100 scudi d’oro, che le fu restituita alla morte del marito, avvenuta dopo il 7. Ottobre 1546. Per volontà testamentaria del padre, i beni familiari passarono al Fanini, mentre il fratello Giuseppe, divenuto prete, e la sorella Bianca, sposatasi con Virgilio Raccagni, furono esclusi dall’eredità.
Intrapreso il mestiere di fornaio, il Fanini sposò nel 1542 Barbara Baroncini, che gli portò la discreta dote di 266 lire bolognesi. Dall’inventario dei beni del Fanini, redatto il 19 settembre 1552, risulta che egli possedeva sette appezzamenti di terreno e una casa fornita di comoda suppellettili (Sez. d. Archivio di Stato di Faenza, Notarile, vol. 1494, cc. 127-132). Dalla Baroncina ebbe due figli: Giovanni Battista, nato nel 1544 circa e già morto il 3 ottobre 1562, e Giulia che nel 1566 risulta sposata a Giulio Milzetti e forse morì prima del 27 gennaio 1578.
Non risulta da alcun documento il periodo esatto nel quale il Fanini cominciò ad orientarsi verso le nuove idee religiose. I biografi fanno, di solito, riferimento all’influenza esercitata su di lui dal Beneficio di Cristo del benedettino Benedetto da Mantova (1543) e dalla Tragedia del libero arbitrio dell’eretico bassanese Francesco Negri (1546). Si tratta, considerata l’ampiezza della diffusione delle due opere, di riferimenti visibilmente generici. Tutto ciò che si può asserire al riguardo è che la diffusione di idee protestanti a Faenza fu anteriore al 1543. Non sappiamo quale impressione abbia lasciato sul Fanini la predicazione di B. Ochino nel 1538. La tradizione agiografica protestante gli attribuisce un’eccezionale conoscenza delleScritture, tale da consentirgli di citarle diffusamente a memoria. Testimoni d’accusa gli attribuirono il possesso e la conoscenza di «molti libri contagiosi» (Casadei, pag. 33). Giulio da Milano, che dichiara d’aver narrato la biografia del Fanini sulla base d’un documento stilato da un conoscente di quest’ultimo, ci informa che, subito dopo l’«illuminazione» che lo convertì al protestantesimo, il Fanini si diede a un’intensa propaganda segreta. Questa attività propagandistica del Fanini rientra, con molta probabilità, nella situazione descritta dal gesuita Pascasio Broët a Francesco Saverio in una lettera da Faenza del 1º marzo 1545 («Molti huomini ed donne sonno in questa città, quali sono machiati di questa dottrina lutherana, qual hanno seminato alcuni predicatori passati, maxime frate Bernardino Ochino da Siena» (Tacchi Venturi, I, 2, p. 142).
Arrestato nel 1547, il Fanini fu processato una prima volta dall’inquisitore Alessandro da Lugo e, «liberato per pietà», fu tuttavia «bandito da Faenza et dalle terre di santa Chiesa romana per conto d’haeresia, con speranza si dovesse emendare», secondo quanto scriverà il 7 febbraio 1549 a Ercole II d’Este il frate conventuale Giovanni Pietro Celso Giusti per informarlo della pericolosa attività del Fanini a Lugo (Casadei, p. 33). Giulio da Milano, interessato a presentare al mondo protestante un modello di martirio, scrive che il Fanini aveva abiurato «per le preghiere dei congiunti» e che, pentitosi, «per fare ammenda del suo errore voleva tanto più magnificamente confessare Dio. E così se ne andò per la Romagna predicando apertamente in ogni città» (Giulio da Milano, p. 96). L’ampiezza della predicazione del Fanini in Romagna è attestata da una lettera da Ravenna dell’inquisitore della Romagna, il conventuale Giovanni Antonio Delfini, del 27 febbraio 1549, al cardinale Marcello Cervini. In essa, nel comunicare l’arresto del Fanini, il Delfini esprimeva anche la speranza che, essendo il Fanini «capo di setta», avrebbe rivelato il nome di altri complici (Casadei, p. 6). Il Delfini scriveva sulla base d’un suo interrogatorio di alcune monache del convento di S. Chiara di Bagnacavallo, avvenuto probabilmente tra il 18 maggio e il 23 ottobre 1548 (ibid., pp. 30 ss.), che si è conservato e che costituisce il documento più importante anche sui contenuti della predicazione del Fanini in Romagna.
Dalle dichiarazioni delle monache risulta che il il Fanini si era unito, nella sua attività, a tali Barbone Morisi e Giovan Matteo Bulgarelli, considerati i capi («ma questi duo sono i capi») d’un gruppo di propagatori delle nuove idee religiose. I contenuti dottrinali di questa predicazione sono compendiati negli interrogatori di sette suore, le quali, anche se riferiscono le dottrine apprese dal Fanini alle consuetudini e agli obblighi della loro vita claustrale, tuttavia insistono su alcuni punti omogenei: il Fanini e i suoi complici avevano insegnato loro che l’eucarestia non ha fondamento nelleScritture e che la messa era un’invenzione a scopo di lucro; che l’ordine sacro non è un sacramento («non fu mai altro sacerdote che Christo»); che le intercessioni dei santi non sono utili e che quindi è valido il loro culto. Da altre dichiarazioni delle stesse monache risulta quanto la predicazione del Fanini fosse stata persuasiva: molte di esse si dichiarano esplicitamente «lutherane»; tutte contestano gli aspetti quotidiani della regola, negando la validità della recita dell’ufficio e del rosario, la pratica del digiuno, i fondamenti della stessa vita claustrale, anche con una punta di gusto dissacrante («dicono che San Francesco non ebbe le stigmate da Christo, ma ch’egli se le fece con cortellino, per ingannare il mondo»). Tale opera di persuasione era avvenuta mediante la proposta di molti libri eteredossi da parte del Fanini.
Dopo una breve detenzione nella rocca di Lugo, il Fanini fu trasferito a Ferrara, dove, il 25 settembre 1549, fu condannato a morte per impiccagione e rogo.
Nei diciotto mesi intercorsi tra l’arresto e l’esecuzione della condanna, il processo del Fanini suscitò attenzione e interventi, nei quali risultano coinvolti, oltre che direttamente gli uffici romani dell’Inquisizione, la stessa corte estense, ambasciatori, prelati e nobildonne in relazione con Renata di Francia.
In primo luogo intervenni a favore del Fanini un personaggio di prestigio legato da tempo alla corte estense, il conte Camillo Orsini, che il 9 marzo del 1549 propose, da Parma, a Ercole II d’Este di consegnare a lui l’inquisito. L’Orsini intervenne ancora nel gennaio del 1550, ma il suo interessamento non ebbe esito. A favore del Fanini intervenne la duchessa Renata, che era già stata larga di elemosine verso di lui, come risulta da un suo appunto (Fontana, Renata di Francia, III, p. XLIII). Il 7 ottobre 1549 Renata si rivolgeva direttamente a Ercole II, chiedendo la liberazione del «povero Fanin» (idid., II, p. 273). Intervenne a favore del Fanini anche Lavinia Della Rovere. Presso quest’ultima aveva fatto pressioni da Kauffbeuren, dove si era stabilita come esule, Olimpia Morata, come risulta da una sua prima lettera a Lavinia, senza data, ma del 1550 (Morata, I, pp. 67 s.): in essa la Morata sollecitava Lavinia a intervenire sia a Roma sia presso Ercole d’Este, perché il Fanini venisse liberato. Le aspettative della Morata sugli esiti dell’interessamento di Lavinia andarono deluse: nell’ottobre del 1551, quando seppe che il Fanini era stato giustiziato, la Morata fu in grado di comunicare a Celio Secondo Curione l’accaduto con molti particolari, insistendo in particolare sulla fermezza del Fanini di fronte alle pressioni della moglie e dei figli. Nel 1552, comunicò a Lavinia la sua commozione e la sua soddisfazione per la costanza con cui il Fanini aveva affrontato la morte.
Pochi giorni dopo l’arresto del Fanini il Cardinale Alessandro Farnese richiese da Roma a Ercole II la consegna del prigioniero, affinchè «si possa anco per suo mezo rinvenire di molti complici» (Casadei, p. 34). Aveva inzio così una lunga trattativa che, oltre a sottolineare l’importanza che si attribuiva al preciso caso del Fanini, mise in evidenza i tentativi di difesa giurisdizionale fatti da Ercole II nei confronti dell’Inquisizione.
In risposta alle richieste da Roma, il duca diede assicurazione (26 marzo 1549) che a Ferrara il Fanini sarebbe stato processato con rigore e che intanto era stato costituito un tribunale nel quale, con una procedura inconsueta, l’inquisitore di Ferrara Girolamo Papino veniva affiancato, per disposizione del duca, da un rappresentante dei domenicani, da un rappresentante dei frati minori, da un rappresentante della curia ferrarese e da tre consiglieri di giustizi a della corte ducale. Risulta che il cardinale Cervini era favorevole a questa procedura. Ercole II prometteva che il Fanini sarebbe stato estradato a Roma, qualora «si jiustificasse talmente» da essere assolto (ibid., p. 13). La condanna non fu subito eseguita, avendo Ercole II interpellato il Papa se non desiderasse mitigare la pena, in considerazione del fatto che si trattava di un caso del tutto nuovo, se non in Italia, certo nel suo Stato. Neppure il rifiuto del Papa convinse il duca ad eseguire subito la condanna. Intanto, il voluto differimento dell’esecuzione da parte di Ercole II trovò giustificazione nella morte di Paolo III. Di ritorno a Ferrara dopo la partecipazione all’incoronazione di Giulio III, Ercole II, evidentemente per premunirsi nei riguardi delle pressioni in favore del Fanini esercitate da «infiniti personagij de importantia», sollecitò il suo residente a Roma Bonifacio Ruggieri a chiedere «una lettera, alla ricevuta della quale non mancheremo di fare exeguire quanto sarà necessario» (ibid., p. 20). Tale lettera, in forma di breve, porta la data del 31 maggio 1550. Agirono sull’operato di Ercole II anche le preoccupanti notizie che gli giungevano da Roma circa le tendenze calviniste di Renata (Archivio di Stato di Modena, Ambasciatori, Venezia, Feruffini, 18 luglio 1550).
La sentenza fu eseguita a Ferrara il 22 agosto 1550.
La biografia del Fanini diede luogo, nei paesi protestanti, a una letteratura di tipo agiografico,, volta a farne un esempio di fermezza per quanti cedevano alla repressione dell’Inquisizione. Nel 1560 il Fanini trovò posto nel martirologio calvinista pubblicato a Ginevra dalla stampatore Jean Crespin (Actiones et monimenta martyrum) e nel 1580 nelle Icones di Théodorede Bèze. Entrambi i profili del Fanini abbozzati in queste due opere dipendono visibilmente da La vita et la morte di Fanini martireche l’esule Giulio da Milano significativamente inserì nell’edizione «riveduta e ampliata» della sua Esortazione al martirio. Subito dopo la morte del Fanini e prima di Giulio da Milano una breve biografia del faentino fu pubblicata dall’altro esule Francesco negri, che si sofferma in particolare su dettagli riguardanti la fermezza del Fanini, con l’intento di contrapporre l’atrocità del supplizio alle promesse di «libero concilio» fatte da Giulio III alla vigilia della seconda fase tridentina. Tuttavia, artefice del profilo agiografico del Fanini divenuto esemplare nel mondo protestante fu la più diffusa biografia di Giulio da Milano. Il vaglio critico della sua narrazione è estremamente difficoltoso. Comunque è certo che la pur frondosa narrazione di tipo emotivo contiene un nucleo di fatti realmente accaduti. Nella quaresima del 1550 Giulio da Milano fu clandestinamente a Ferrara dove predicò e celebrò la cena alla corte di Renata. Non pochi particolari della narrazione di Giulio coincidono anche con la cronaca coeva del Biondi (Fontana, Renata di Francia, III, pp. 185 s.).
La notizia più rilevante data da Giulio Milano riguarda i numerosi scritti che il Fanini avrebbe composto e che descrive come se li avesse visti: «Molte delle sue opere sono insieme confuse, senza alcuna distinzione; ma chi le volesse distinguere potrebbe cominciare dalle sue Epistole, e pigliare le spirituali e farne quattro copiosi libri. Di altri varii suoi scritti composti inprigione, si possono comodamente fare tre libri. Vi sono poi queste opere da lui medesimo ordinate, due trattati della proprietà di Dio, due trattati della confessione, due trattati del modo di conoscere Gesù, il fedele dell’empio, cento sermoni sopra gli articoli della fede, dichiarazioni sui Salmi, dichiarazioni su Paolo, dispute contro l’Inquisitore, consolazione ai suoi parenti sopra i casi suoi, avvisi delle cose della sua vita. Vanno attorno alcuni sonetti spirituali a lui attribuiti, e un componimento di merito, che non si trovano ne’ suoi scritti.
Quanto a questo suo modo di comporre, piegava la carta, e da un lato scriveva, dall’altro notava i luoghi della Scrittura, e spesso sono più i luoghi notati nel margine che non sono le sue parole. E faceva ciò piuttosto miracolosamente che altrimenti, perocché mostrava di avere ogni cosa nella memoria e non giungere parola insieme che non fosse in due o tre luoghi o dell’uno o dell’altro Testamento. Ponea nel cominciamento di ciascheduna sua scrittura: non moriar sed viviam et narrabo opera domini» (Giulio da Milano, p. 105 s.).
La notizia di Giulio da Milano sugli scritti concorda in parte anche con la narrazione del Negri. In una delle varie edizioni della sua Istoria del progresso e dell’estinzione della Riforma in Italia T. Maccrie informa che scritti del Fanini furono stampati dopo la sua morte (Maccrie, p. 260). La notizia non ha fondamento.
FONTI E BIBLIOGRAFIA: Archivio di Stato di Ravenna, Sez. di Faenza, Archivio notarile, Notaio Nicola Torelli, vol. 836, cc. 298, 405, (6, 19 ott 1542: dote di Barbara Baroncini); vol. 847, c. 35 (7 sett. 1546: testamento di Melchiorre Fanini); vol. 864, cc. 392-295 (18 ag. 1552: inventario dei beni del Fanini); Ibid., Notaio Matteo Tomba, vol. 1494, cc. 127-132 (19 sett. 1552: tutela di Giovanni Battista Fanini e inventario dei beni familiari); Ibid., Notaio Giacomo Ubertini, vol. 1852, cc. 87-88 (16 ag. 1561: testamento di Diana Fanini); Faenza Bibl. Comun., ms. 62: G.M. Valgimigli, Memorie istoriche di Faenza. Origini. 1793, vol. XV, fasc. 58, pp. I-II; Ibid, Giunte,pp. 375 ss., 479, 539, 725; Ibid., Schedario cronologico di G.Rossini, 29 genn. 1504, 29 dic. 1520 (notizie relative alla famiglia Fanini); B.Azzurrini, Chronica Breviora, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XXVIII, 3, I, a cura di A. Messeri, p. 265; F.Negri, De Fanini Faventini et Dominici Bassanensis morte … brevis historia, Tiguri 1550; Giulio da Milano, La vita e la mora di F. martire, inEsortatione al martirio, [Poschiavo?] 1552, pp. 95-106, ristampata in La Rivista Cristiana, VIII (1880) I, pp. 3-10; Actiones et monimenta martyrum, Genevae 1560, coll. 162-166; Opuscoli e lettere di riformatori italiani del ‘500, a cura di G.Paladino, Bari 1927, II pp. 178-180, 182-186; O. Morata, Opere, I; Epistolae, a cura di L. Caretti, Ferrara 1954, pp. 67 s., 75-79; Théodore de Bèze,Icones, Genevae 1580, c. Hhij; G.L: Nolten, Dissertationem historicam de Olympiae moeatae vita, scriptis, fatis et virtutibus, Francofurti 1731, pp. 37 ss.; D.Gerdes, Specimen Italiae reformatae,Lugduni Batavorum 1765, pp. 98ss., 245 ss.; G.Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VII, 2, Modena 1791, p. 383; T.Maccrie, Istoria del progresso e dell’estinzione della Riforma in Italia,Parigi 1835, pp. 258 ss.; Biografia di F., in L’Amico di casa, VII (1860), pp. 33-42; C.Cantù, Gli eretici d’Italia, Torino 1866, II, pp. 99, 344 s.; III, pp. 34, 154; L.Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, II, Napoli 1875, p. 212; B.Fontana, Documenti vaticani contro l’eresia luterana in Italia, in Archivio della Soc. rom. di storia patria, XV (1892), p. 418; Id., enata di francia duchessa di Ferrara, II, Roma 1893, pp. 272-279, 520 s.; III, ibid. 1899, pp. XLIII, 185-187; B.Amante, Giulia Gonzaga contessa di Fondi e il movimento religioso nel secolo XVI, Bologna 1896, p. 260: E.P. Rodocanachi, Une protectrice de la Rèforme en Italie et en France, Renèe de France duchesse de Ferrare, Paris 1896, pp. 275 s.; A Messeri-A. Calzi, Faenza nella storia e nell’arte, Faenza 1909, pp. 249 s.; G.Buschbell, Reformation und Inquisition in Italien um die Mitte des XVI.Jahrhunderts, Paderborn 1910, pp. 180, 220, 309; G.Zonta, Francesco Negri l’eretico e la sua tragedia «Il libero arbitrio», in Giorn. stor. della lett. Ital., LXVII (1916), PP. 314-318; A. Cavalli, F.F. e gli eretici faentini del sec. XVI, in La Piê, II (1921), 3-4, pp. 39 s., 54 ss.; L. von Pastor, Storia dei Papi, VI, Roma 1922, p. 152; F.Lanzoni, La controriforma nella città e diocesi di Faenza, Faenza 1925, pp. 89-101 (rielaborazione di notizie e articoli pubblicati nelBollettino diocesano nel 1916-1921); P. Tacchi Venturi, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, I, 2, Roma 1931, pp. 142 ss; II, 2, ibid. 1951, p. 240; A.Casadei, F. F. da Faenza, in Nuova Riv. Stor., XVIII (1934), 2-3, pp. 3-34 (con importanti documenti d’archivio); F.C. Church, I riformatori italiani, Firenze 1935, pp. 283 s.; D.Cantimori, Prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento, Bari 1960, pp. 41, 52.